Macbeth, Otello, Falstaff, ma ancheAmleto, La tempesta, progetti accarezzati e mai compiuti, e soprattuttoRe Lear, sogno di tutta una vita: il rapporto di Verdi con il teatro di Shakespeare non fu certo incontro fortuito. L’interesse per il poeta inglese crebbe, diremmo, con l’uomo, dalla prima gioventù fino alla maturità estrema; e che fosse mediato dalla traduzione italiana di letterati come Carlo Rusconi e Andrea Maffei, amico influente oltre che collaboratore nel caso deiMasnadierie diMacbeth, o dall’interpretazione decadentista di Arrigo Boito perOtello, poco importa. Ciò che più interessa è il fatto che al suo mondo interiore attenessero alcune fra le più grandi problematiche morali della tragedia shakespeariana: il confronto dell’individuo con la propria coscienza e identità, la presenza del male nella natura umana e la lotta con esso, il rapporto con il potere.
Macbethè la prima concretizzazione di questo duraturo confronto di Verdi con il teatro del grande drammaturgo; nell’energia e nell’impegno suscitati essa reca in sé il segno di quella straordinaria svolta stilistica che porterà alla cosiddetta trilogia popolare:Rigoletto, Trovatore, Traviata. L’offerta di scrivere una nuova opera da rappresentarsi nella stagione di carnevale e quaresima del 1847 al Teatro della Pergola di Firenze gli venne dall’impresario Alessandro Lanari. Verdi stette qualche tempo incerto sulla scelta del soggetto tra Grillparzer, Schiller (I masnadieri) e Shakespeare (Macbeth), poi restrinse il campo agli ultimi due drammi, decidendosi infine definitivamente perMacbeth. Scelto l’argomento, Verdi dimostrò di avere da subito le idee molto chiare riguardo alle linee su cui l’opera avrebbe dovuto essere condotta: una tragedia che corre sul filo del sublime, con tre personaggi, Macbeth, Lady Macbeth e le streghe, concisa e veemente, dove la parabola dell’eroe, che intraprende la via dell’ambizione e travolge tutto ciò che gli si oppone correndo verso la propria condanna, venisse sviluppata con grande rapidità. Per quanto chiaro risultasse l’assunto al compositore non altrettanto sembrava esserlo al librettista, Francesco Maria Piave, con il quale Verdi ingaggiò infatti un inesausto conflitto epistolare attraversato da un richiamo continuo e quasi ossessivo verso una prosa concisa, forte e significante, unito all’invito all’uso di poche parole che fossero in grado di rendere la situazione drammatica. Questo è un punto importante, in quanto Verdi veniva qui definendo un concetto fondamentale per lo sviluppo del proprio teatro, quello cioè di ‘parola scenica’, vale a dire una parola che traducesse precisamente la situazione drammaturgica. L’incomprensione, o meglio l’incapacità di Piave in tal senso fu tale che Verdi richiese addirittura l’intervento di Andrea Maffei, come nel caso del coro delle streghe del terzo atto e della scena del sonnambulismo. L’inevitabile processo di sfrondamento nei confronti della fonte originale riguardò anche i personaggi, ridotti come si è detto a tre, Macbeth, Lady Macbeth e il coro di streghe, più due piccole parti, Banco e Macduff, che Verdi ampliò quando la struttura del dramma si era fatta così scarna da richiedere l’aggiunta di un’aria di Banco (“Come dal ciel precipita”), l’ampliamento di quella di Macduff (“Ah la paterna mano”) e di quella finale di Macbeth.
Atto primo. In Scozia, in gran parte al castello di Macbeth. Dopo un preludio costruito sulla ripresa di materiale tematico relativo alle streghe e impostato essenzialmente su progressioni di accordi dissonanti che creano un accumulo di tensione che si risolve sul tema del sonnambulismo, l’atto si apre in un bosco percorso da lampi e tuoni, dove alcune streghe riunite in tre crocchi commentano i sortilegi compiuti (coro “Che faceste? Dite su”). Il rullo di un tamburo annuncia l’arrivo di Macbeth e Banco, generali dell’esercito del re Duncano. Le streghe profetizzando salutano Macbeth sire di Glamis, sire di Cawdor e re di Scozia. Macbeth trema e Banco, stupito dalla reazione dell’amico, chiede anch’egli un presagio: sarà meno di Macbeth ma di lui maggiore, più felice e genitore di un re. Arrivano i messaggeri del re, che annunciano a Macbeth di essere stato eletto sire di Cawdor. Banco inorridisce al pensiero che le streghe abbiano detto il vero e Macbeth dà voce ai suoi pensieri di ambizione e morte (duetto “Due vaticini compiuti or sono”). Nell’atrio del castello di Macbeth, Lady Macbeth legge una lettera del marito ove egli racconta il vaticinio delle streghe. Lady Macbeth riconosce l’ambizione del marito ma ne paventa la titubanza nel portare a termine l’impresa audace: sarà dunque lei ad accendere il cuore di Macbeth e a istigarlo all’assassinio del re Duncano (“Vieni, t’affretta”) favorito dal fatto che il re intende trascorrere al castello di Macbeth la notte. In una furibonda cabaletta Lady Macbeth chiama le furie infernali a spingere il marito all’atto sanguinoso (“Or tutte sorgete o furie infernali”). Nonostante le istigazioni della moglie, la coscienza di Macbeth vacilla: inizia ad avere la prima delle visioni che lo segneranno per il corso di tutta l’opera: gli si presenta un pugnale, la lama irrorata di sangue; Macbeth deve agire ed entrato nella stanza del re, lo uccide. Lady Macbeth rientra nella stanza di Duncano per insanguinare le guardie e porre vicino a loro il pugnale che le accusi: Macbeth non può resistere all’orribile spettacolo del proprio misfatto (“Fatal mia donna, un murmure”). È ormai mattina presto, Macduff va per svegliare il re mentre Banco dice di aver sentito lamenti e voci di morte nella notte (“Oh qual orrenda notte”). Alle grida di orrore di Macduff che esce dalla stanza di Duncano accorrono tutti, Macbeth, Lady Macbeth, Malcolm, i servi: il re Duncano è stato tradito e ucciso.
Atto secondo. Nella sua stanza, Macbeth teme il vaticinio fatto a Banco: «non re ma di monarchi genitore», per cui decide di uccidere Banco e il figlio Fleanzio. Lady Macbeth ancora una volta invita il marito a essere fermo (“Trionfai, securi alfine”). Nel parco vicino al castello di Macbeth un gruppo di sicari si riunisce per attaccare Banco e suo figlio, che camminano preoccupati da oscuri presentimenti (“Come dal ciel precipita”). Banco viene ucciso mentre Fleanzio fa in tempo a fuggire. Nel frattempo nel castello di Macbeth, davanti a una mensa imbandita, dame e cavalieri salutano Macbeth, che propone un brindisi in onore della moglie (“Si colmi il calice”); ma il clima di festa è interrotto dall’arrivo di un sicario dal viso sporco di sangue. Macbeth è turbato e inizia a delirare: vede l’ombra dell’amico che gli scuote innanzi i capelli insanguinati, mentre Lady Macbeth sottovoce invita il marito a risvegliarsi. Quando Macbeth ritorna in sé, il banchetto riprende, ma di nuovo appare l’ombra di Banco scacciata violentemente da Macbeth. Lady Macbeth accusa il marito di pavidità e lo invita alla ragione: chi è morto non può più tornare.
Atto terzo. In un’oscura caverna, intorno a un calderone che bolle, le streghe preparano una poltiglia infernale (coro “Tre volte miagola”). Macbeth viene a interrogarle e le streghe evocano le apparizioni. La prima, una testa coperta d’elmo, dice a Macbeth di guardarsi da Macduff; la seconda, un fanciullo insanguinato, gli dice che nessun nato di donna gli potrà nuocere; la terza apparizione, un fanciullo coronato che porta un ramoscello, dichiara Macbeth invincibile fino a quando non vedrà la foresta di Birnam muoversi. Sfilano quindi i fantasmi di otto re, la stirpe di Banco che regnerà: Macbeth li scaccia e infine sviene. Le streghe invitano gli spiriti aerei a destare il re svenuto. Macbeth rinviene e incita se stesso ad accrescere il proprio potere (“Vada in fiamme, e in polve cada”).
Atto quarto. Ai confini della Scozia e dell’Inghilterra, i profughi scozzesi piangono le sorti della patria in mano a un tiranno che la insanguina (“Patria oppressa”). L’ultimo eccidio fatto perpetrare da Macbeth è infatti quello dei figli e della moglie di Macduff, il quale ne piange le sorti (“Ah, la paterna mano”). Malcolm, alla testa dei soldati inglesi, invita tutti a prendere un ramo e ad avanzare dietro a esso, mentre insieme a Macduff incita alla rivolta contro il tiranno (“La patria tradita”). All’interno del castello, intanto, Lady Macbeth è colta la notte da sonnambulismo: la dama e il medico la vegliano e assistono a un rituale che si ripete uguale: Lady Macbeth si sveglia e rievoca l’assassinio di Duncano, di Banco, di Macduff; affannosamente e invano cerca di pulire le sue mani dalle macchie di sangue (“Una macchia... è qui tuttora”). Le truppe nemiche assediano il castello di Macbeth, il quale dichiara di non temere nulla in quanto le streghe hanno vaticinato che nessun nato di donna gli può nuocere; eppure si sente sfuggire la vita ed è consapevole che nessuno onorerà la sua memoria (“Pietà, rispetto, amore”). Rimane fermo anche all’annuncio della morte di Lady Macbeth, ma quando apprende che la foresta di Birnam si muove grida al tradimento e, impugnati spada e pugnale, fronteggia Macduff, al quale rammenta il presagio delle streghe. Vacilla quando Macduff gli dice di non essere nato da donna ma di essere stato tolto dal seno materno, e ferito a morte spira (“Mal per me che m’affidai”).
Nella ripresa di Parigi del 1865, Verdi apportò alla partitura alcune modifiche per le quali chiese l’intervento di Piave, nel frattempo ritornato in auge. Piccoli cambiamenti di termini (uno per tutti la cabaletta di Lady Macbeth nel primo atto, dove le «furie infernali» diventano «ministri infernali») a modifiche più sostanziali quali la sostituzione della cabaletta di Lady Macbeth del secondo atto (“Trionfai, securi alfine”), con l’aria “La luce langue”, pezzo che tratteggia il personaggio in modo più sfaccettato, rendendo così più credibile il crollo psichico di Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo dell’ultimo atto. Dopo la cabaletta infatti, nella versione del 1847, Lady Macbeth cantava ancora nel brindisi all’interno del convito, della visione, e del finale secondo, dopo il quale non riappariva se non nella grande scena del quarto atto. Nel 1865 Verdi fece sì che Macbeth trovi accanto a sé la moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe in conseguenza del quale decide di sterminare Macduff e prole e di cercare il figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine sostituì la cabaletta di Macbeth (III,4, “Vada in fiamme e in polve cada”) con un duetto tra Macbeth e Lady Macbeth (“Ora di morte e di vendetta”). Sempre nel terzo atto, per adeguarsi alle convenzioni francesi, furono inoltre inserite le danze. Nel quarto atto provvide a sostituire al coro (“Patria oppressa”) una scena e un coro modificato. Infine, la morte di Macbeth. Nella prima versione Verdi aveva cercato per Macbeth una morte che si sviluppasse in un Adagio, da cantarsi con voce fioca; una morte insomma che non fosse convenzionale, come quella di tanti eroi donizettiani. Al posto di questo episodio, nella ripresa del 1865, un fugato orchestrale rende l’infuriare della battaglia, mentre Macduff fronteggia Macbeth spingendolo fuori scena, dove lo uccide.
Brevità e sublimità: questo richiedeva con pervicacia il maestro, perché inMacbethnon c’è tempo per rallentare il ritmo. Dall’erompere dell’azione in uno scenario selvaggio alle scene finali, il ritmo imposto dal corso degli eventi non concede tregua. L’ambiente in cui l’azione ha luogo è prevalentemente occupato dalle tenebre, squarciate da lampi di luce: siano quelli del pugnale che vibra avanti a Macbeth), piuttosto che la luce tenuta da Lady Macbeth vicino a sé per paura dell’oscurità. È una tenebra che richiama quello dell’inferno, e per questo Lady Macbeth ne ha timore. Quando c’è colore è quello del sangue, che macchia le mani della coppia fatale, irrora le lame, si aggruma sui capelli degli uccisi. Anche la dimensione che percepisce l’orecchio è sempre qualcosa che confonde le voci dell’interno, le voci della coscienza, con quelle esterne, che prendono la forma di lamenti, mormorii, colpi: quasi un costante richiamo a uno stato ipnagogico. Questo gioco su dimensioni subliminari, che riguardano la coscienza e la componente sovrannaturale, si traduce in partitura con un’attenzione straordinariamente attenta alle componenti timbriche e strumentali. Ogni scelta è scrupolosamente ponderata nell’esito: la sublimità della scena del sonnambulismo, fulcro dell’opera insieme al duetto “Due vaticini”, la gran scena delle apparizioni, per le quali Verdi ricerca sonorità arcane, il colore singolare degli episodi delle streghe, per i quali dovette essergli presente l’esempio delFreischützdi Weber, e sempre e ovunque la presenza del cromatismo, veste sonora del male, del soprannaturale, del demoniaco, che pervadeMacbethfin dalla microstruttura. La stessa attenzione è rivolta alla vocalità, specie a quelle di Macbeth e Lady Macbeth. Complice un interprete d’eccezione, il baritono Felice Varesi, Verdi poté studiare una forma di canto estremamente aderente alla parola, e quindi alla situazione drammatica, che facesse uso anche di tutte le forme intermedie di intonazione; a questo proposito alcuna critica è arrivata a parlare addirittura diSprechgesang(Mila). Ma a qual punto Verdi si spingesse nell’individuazione del personaggio attraverso la vocalità si può comprendere da una lettera nella quale, discutendo delle varie interpreti di Lady Macbeth, il compositore arriva a rifiutare una cantante, la Tadolini, perché dotata di voce troppo bella. Lady Macbeth, nel suo diabolismo, doveva non cantare quasi, o comunque cantare con una voce ‘brutta’. Insomma, da parte di Verdi, quasi una sorta di deliberato ritiro in secondo piano rispetto alla lezione del poeta, dettato dalla preoccupazione di rendere appieno il senso della poesia shakespeariana. Così sentito il peso di tale confronto, che si sarebbe tentati di riportare come epitome all’opera, e decisa affermazione di un nuovo stile di canto, essenzialmente funzionale alla situazione drammatica, la frase scritta al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi: «Io non cesserò mai di raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il poeta del maestro».