Diciannovesima opera di Rossini, prima opera seria napoletana dopo l’Elisabetta,Otellofu composto dopo il disastroso debutto delBarbiere di Sivigliaa Roma eLa gazzetta. A Napoli Rossini, legato da contratto con l’impresario del San Carlo, Domenico Barbaja, aveva a disposizione una delle più prestigiose compagnie di cantanti dell’epoca, guidata da Isabella Colbran (mezzosoprano acuto per la quale il compositore scrisse i ruoli da protagonista delle sue opere serie più importanti, fino aSemiramide) e da due tenori di timbro vocale differente, Andrea Nozzari, dalle risonanze baritonali, e Giovanni David, tenore ‘contraltino’, acuto e acrobatico nell’agilità. In base alle disponibilità della compagnia, che prevedeva anche un buon secondo tenore e un basso, sono distribuiti i ruoli vocali del libretto, e questo spiega l’accento ‘tenorile’ delle prime opere serie napoletane di Rossini: anche inArmidala prevalenza di tale registro determina una distribuzione che oggi può sembrare anomala, e che in quell’opera origina ad esempio un terzetto per tre dei cinque tenori previsti in parti di spicco.
Il libretto del marchese Berio è stato criticato soprattutto dagli stranieri contemporanei di Rossini che, a differenza dello spettatore italiano dell’epoca, conoscevano e amavano Shakespeare. Poco rimane infatti della tragedia shakespeariana, poiché l’intreccio segue la storia e lo schema di innumerevoli altri libretti d’opera: amore di una fanciulla e di un eroe; opposizione del padre di lei, che destina la figlia in sposa a un altro; gelosia dell’eroe, che crede infedele l’amata. Ma nello schema tradizionale salta qualcosa, forse in virtù dell’autorità della fonte tragica, forse perché i tempi sono ormai cambiati. Il lieto fine ordinario viene impedito: l’eroe uccide l’amata. Anche se nelle riprese dell’opera il finale tragico veniva volentieri mutato in un lieto fine, con la rappacificazione di Otello e Desdemona, l’opera di Rossini fornisce uno dei primi esempi in cui un libretto serio italiano, non di stampo classicistico o francesizzante (come l’Ecubadi Manfroce o ilTancredidi Rossini nella versione di Ferrara, con il finale tragico), termina con lo scacco mortale dei protagonisti.
Dopo l’ouverture, che contiene autoimprestiti dalTurco in Italiae dalSigismondo, il coro di introduzione e la marcia che aprono il primo atto si collegano in un’unica arcata drammatica al secondo numero della partitura, la sortita di Otello (“Ah sì per voi già sento”), reduce da una campagna vittoriosa contro i Turchi, acclamato a Cipro dal popolo e dai senatori veneziani. Nel cantabile della sua cavatina il condottiero pensa all’amata Desdemona, sua sposa segreta nonostante l’opposizione del padre di lei, Elmiro. Solamente in tempi recenti, quando la parte del protagonista è stata interpretata da un tenore scuro, baritonale, capace di eseguire con esattezza i dettagli ritmici nel fraseggio melodico, si è potuta constatare l’esattezza drammaturgica – pur in un codice impostato sulle regole stilistiche del belcanto – dei vocalizzi sfrenati e dei salti di registro perigliosi della scrittura di Otello, specialmente in questo numero che è un po’ il suo biglietto da visita. Lungi dall’essere una sortita ‘da tenorino leggero’, l’aria di Otello caratterizza il personaggio con queiticche lo seguiranno implacabilmente in tutta l’opera (le figure marziali a ritmo puntato) e, saldandosi al coro e marcia introduttivi, offre un primo, grandioso insieme omogeneo, un quadro scenico unitario in cui il compositore trascende le indicazioni formali imposte dalla metrica del libretto. Mediante la somiglianza di incisi melodici, formule ritmiche, sequenze armoniche, e di un’unica tinta orchestrale, squillante anche quando Otello esprime il suo amore, Rossini attua un progetto di coesione con mezzi di derivazione sonatistica, un lavoro ‘artigianale’ cui spesso ricorre nelle introduzioni più estese delle sue opere. Jago e Rodrigo, in disparte, commentano astiosamente la fortuna di Otello: il primo lo invidia per i successi politici, il secondo è il suo rivale in amore. Elmiro confida a Rodrigo, promesso sposo di Desdemona, che la figlia è oppressa da una pena nascosta; Jago conforta Rodrigo, dichiarandosi suo alleato e mostrandogli una lettera di Desdemona, senza confessargli cosa ne intende fare. Un duettino suggella la loro alleanza. Nel palazzo paterno, Desdemona teme che Otello la creda infedele, poiché la lettera a lui diretta è stata intercettata dal padre; invece che presentarsi con un’aria, la protagonista canta un duettino con la confidente Emilia (“Vorrei, che il tuo pensiero”), la cui semplice costruzione conquistò Stendhal. Elmiro combina immediatamente le nozze fra Rodrigo e la figlia: in una «pubblica sala magnificamente adorna» un coro introduce il finale primo. Desdemona incontra Elmiro, che le presenta il promesso sposo dando inizio a un breve terzetto, in cui i protagonisti si confrontano imbarazzati. Giunge improvvisamente Otello, il quale rivela che un solenne giuramento lo lega a Desdemona; Elmiro maledice la figlia. Segue il momento di stupore generale, condensato in un sobrio canone (“Incerta l’anima”) su un tessuto d’accompagnamento funebre; la stretta si incastra subito dopo il tempo lento, travolgendo il consueto momento intermedio, qui ridotto a poche frasi fulminanti.
Invano Rodrigo implora Desdemona di amarlo, all’inizio dell’atto successivo, in una breve aria virtuosistica; quando egli giura di vendicarsi nei confronti di Otello, Desdemona teme per l’amato e cerca di avvertirlo dell’ira di Rodrigo. Jago persuade Otello del tradimento di Desdemona, mostrandogli la lettera a lei sottratta; la stretta del duetto fra i due tenori ha un impulso ritmico di cui Verdi si ricorderà per “Sì, vendetta” delRigoletto. Giunto Rodrigo, nasce una sfida fra i due rivali: il duetto è appena iniziato (“Ah vieni, nel tuo sangue”), quando si trasforma in terzetto, poiché Desdemona si getta fra i duellanti cercando invano di arrestarli. Rimasta sola, svenuta, Desdemona si risveglia angosciata e chiede a Emilia di andare in cerca di Otello (“Che smania? ahimè! che affanno?”); durante la sua grande aria conclusiva dell’atto, è raggiunta dapprima da un coro di confidenti, che le annuncia che Otello è vivo, poi dal padre che la scaccia nuovamente.
Un solo numero indica in partitura la sostanza musicale dell’ultimo atto, concepito evidentemente come un’unica arcata drammaturgica, uno studio psicologicamente affascinante dell’intimo della protagonista, che attende Otello nella sua stanza. Dapprima Desdemona confida le proprie pene a Emilia, poi ascolta giungere dall’esterno il canto di un gondoliere, che intona alcuni versi danteschi (dall’episodio di Paolo e Francesca); quindi essa stessa, accompagnandosi con l’arpa, canta la ‘canzone del salice’ (“Assisa a piè d’un salice”), ricordando il destino della sua amica Isaura, morta per amore. Il vento che spalanca la finestra, e poi la commozione interrompono due volte il canto di Desdemona; congedata Emilia, Desdemona intona una preghiera. Armato di pugnale, Otello si introduce nella stanza: Desdemona tenta invano di difendersi dalle accuse di tradimento, e poi si offre al pugnale affrontando la morte (duetto “Non arrestare il colpo”). Otello viene raggiunto da un suo ufficiale, il quale gli rivela che Jago, ferito a morte da Rodrigo, ha confessato i suoi peccati e la trama ordita contro Desdemona. Sopraggiungono Elmiro e Rodrigo, che offrono amicizia al protagonista; Otello si uccide.
Il breve finale dell’opera, che inizia quando Desdemona è ormai morta, è musicato da Rossini con un’organizzazione delle durate ancora più sintetica di quella presentata dal libretto. In tutta l’opera i momenti di dubbio,impasse, attesa, erano stati tradotti dal compositore con una formula stilistica abusatissima, il ‘congegno iterativo’ (la stessa frase, bilanciata come in un meccanismo a pendolo, divisa fra armonia di tonica e di dominante e ripetuta una volta sola): anche in questo finale ridotto, al momento in cui i personaggi offrono amicizia a Otello – che ha appena ucciso l’amata e si sente imbrigliato dal falso lieto fine che si offre troppo tardi – risuona un congegno iterativo rapidissimo, nella sua banalità e stupidità di fanfaretta ‘positiva’, con un effetto straniante degno di Kurt Weill. Ma l’intero atto costituisce, nella sua struttura musicale e drammatica, un’unica arcata, un grande finale staccato dal corpo dell’atto secondo (come nelMosè in Egitto). Alla scena iniziale – in cui non c’è azione ma attesa di azione, in cui al primo recitativo segue il canto in forma libera, quasi improvvisativo, del gondoliere – segue un momento di stasi, costituito dalla canzone e dalla preghiera di Desdemona; la scena dinamica, innescata dall’apparizione di Otello, culmina in una stretta finale, che comprende l’intero duetto. Costituito da due sezioni in Allegro, nella seconda parte (la cabaletta vera e propria) il numero chiuso si apre all’azione, sfocia in un episodio di assoluta immediatezza, in cui i personaggi si affrontano in tempo reale. È più che logico che in un duetto simile manchi il tempo di mezzo, previsto ma in un secondo momento espulso dal compositore; espulso proprio perché l’intero duetto ha funzione generale di stretta, nella sua tragica essenzialità, del numero complesso che costituisce il finale dell’opera e nello stesso tempo l’ultimo atto.
Interpretato dai maggiori cantanti dell’epoca (Giuditta Pasta, Maria Malibran, che cantò sia Desdemona sia la parte di Otelloen travesti, Pauline Viardot, Wilhelmine Schroeder-Devrient), l’Otelloper parecchi decenni fu l’opera seria rossiniana più rappresentata. Scomparve dalle scene dopo l’allestimento romano del 1880, per tornarvi nel secondo dopoguerra, con notevole anticipo rispetto alla recente ‘Rossini-renaissance’: dopo la ripresa in forma di concerto a New York (1957), e quella alla Rai di Roma (1960), una fortunata serie di rappresentazioni ne diffuse la conoscenza in Italia e all’estero, anche grazie all’interpretazione di Virginia Zeani (che cantò Desdemona l’ultima volta a Roma nel 1975). L’opera è rimasta da allora sempre in repertorio, e in epoca recente le riprese si sono moltiplicate, a partire dalle rappresentazioni di Venezia e Parigi (1986, con June Anderson) e dall’allestimento pesarese del 1988. Solo il soprano-baritono Michael Aspinall, alcuni anni fa, ha osato riproporre la versione con il lieto fine, interpretando con scrupolo filologico una Desdemona assaivirago, ma vocalmente ineccepibile, che con poche ma decise parole convinceva della propria innocenza un timido Otello in versione da mezzosoprano. Altrettanto intimidatoria dovette sembrare a Chopin l’interpretazione della gigantesca Schroeder-Devrient quando, fronteggiando nel finale dell’opera la piccola Maria Malibran (nei panni del Moro), Desdemona gli dava l’impressione di dover ammazzare Otello, e non viceversa.