Il congedo di Rossini dall’Italia è un testamento estetico,Semiramide, ovvero la formalizzazione di un modello di opera dalle proporzioni così perfette da presentarsi come astratta idealizzazione. Per questo è vero che conSemiramideRossini evita in qualche modo lo sperimentalismo delle opere del periodo napoletano, ma è altrettanto vero che non si tratta di un ritorno sui propri passi, di un ritornotout courtallo stile diTancredi(1813), per intenderci, quanto piuttosto dell’elaborazione di una forma di opera talmente idealizzata da non avere precedenti. Rossini iniziò a comporre la partitura diSemiramidenel novembre del 1822; aveva lasciato Napoli, definitivamente, e questo significava anche un necessario ripensamento del suo stile. Non poteva infatti pensare di esportare lo stile delle sue opere napoletane in un teatro, come la Fenice, che non sarebbe stato pronto ad accogliere un linguaggio stilisticamente così avanzato come quello adottato nei grandi capolavori di quel periodo. Dovette ripensare alla grande stagione diTancredi, rappresentato sullo stesso palcoscenico della Fenice dieci anni prima: perciò stesso librettista, Gaetano Rossi, e stesso autore per la fonte del libretto, Voltaire. Librettista e compositore scelsero la tragediaSémiramis, che elaborarono più dall’originale francese che dalla ottima versione datane da Melchiorre Cesarotti nel 1772. Il tema di Semiramide risale alla tarda antichità, a Ctesia di Cnido, fonte di Diodoro Siculo, per trovare successive elaborazioni in Agostino e Orosio, fino a fornire materia di tragediografi moderni come Muzio Manfredi (1593) e Berlingero Gessi, fino a Voltaire che, nel 1748, fa rappresentare alla Comédie Francaise e poi davanti alla corte, la suaTragédie de Sémiramis(Questa). Voltaire glissa su uno dei temi fondamentali della tradizione di Semiramide, quello dell’incesto involontario, uno dei paradigmi classici (SofocleEdipo re) insieme a quello del matricidio vendicatore (Agamennone). Rispetto all’originale, Rossi introduce un nuovo personaggio, Idreno, un principe indiano che ama Azema. Questa deroga alla fonte primaria serve a introdurre il tema amoroso, senza il quale sembrava inconcepibile in un libretto che in realtà del tema dell’amore se ne faccia poco o nulla, in quanto viene relegato entro la piccolissima cornice che ruota intorno al personaggio di Azema, questa principessa babilonese che tutti, Idreno, Arsace, Assur, inspiegabilmente amano. Inspiegabilmente perché ad Azema non è dato alcun rilievo nell’opera, ed ella sembra comparire più che altro per dare senso alla presenza di Idreno, e per far sfoggio di bellissime arie tenorili, (in particolare “Ah, dov’è, dov’è il cimento” nel primo atto e quella del secondo “La speranza più soave”), che per una propria necessità drammaturgica. Anche Arsace infatti, pur amando Azema, quando apprende che il suo nuovo compito è vendicare il padre, se ne dimentica improvvisamente. Assur, dal canto suo, appare imbrigliato in conflitti ben più gravi che non la rivalità con Arsace a proposito della bella principessa. Ma guardando alla struttura dell’opera, Azema ha un suo ruolo che, se non ha peso per se stesso, riveste una funzione fondamentale nell’economia del dramma: creare dei piccoli sipari di distensione, delle oasi di azzeramento tensivo che separano grandi blocchi di una drammaticità intollerabile qualora fossero messi in diretta relazione. Si pensi alla scena quinta e sesta del secondo atto dove ricompaiono Azema e Idreno: nella scena precedente Arsace ha appena scoperto di essere il figlio di Nino e decide di vendicarsi di Assur, in quella successiva Semiramide rincorre Arsace ed egli, nello scacciarla, gli rivela di essere suo figlio e di essere al corrente che fu lei insieme ad Assur a uccidere Nino. Per quanto, come sosteneva Aristotele nellaPoetica, il poeta produce il piacere che si dà dall’imitazione di pietà e paura, il drammaturgo, e con lui il compositore, ha sempre presente la dialettica di tensione e distensione, senza la quale si vanifica l’effetto della tragedia. Per questo, sia detto per inciso, le esecuzioni che operano tagli della scene – diciamo – secondarie, come spesso avviene in drammi della durata diSemiramide, producono un enorme danno dal punto di vista dell’equilibrio dell’opera. Rispetto alla tragedia di Voltaire è nuova anche la situazione di Assur che, mentre accompagnato dai satrapi sta per violare la tomba di Nino, vede, lui solo, lo spettro del re. Non può non tornare alla mente a questo proposito la celebre scena dell’apparire dello spettro di Banco nelMacbethdi Shakespeare, non unico debito da pagare al drammaturgo inglese. Il tema dello spettro che ritorna a chiedere vendetta è presente anche inAmleto, la cui vicenda è in ultima istanza la stessa di Semiramide. Voltaire insomma giunge a Rossini attraverso lo Shakespeare diMacbetheAmleto.
Atto primo. Antefatto: quindici anni prima dell’inizio del dramma, la regina di Babilonia, Semiramide, cospira insieme al principe Assur per uccidere suo marito, il re Nino e impossessarsi del trono. Poco tempo dopo il regicidio, il figlio Ninia scompare, affidato al fratello di Nino, Fradate, perché se ne curi. Nino lascia al figlio anche uno scrigno con una lettera di riconoscimento. Il sipario si leva sul tempio di Belo, in Babilonia, dove si svolge una cerimonia solenne che precede la designazione del re. Oroe, gran sacerdote, ha ascoltato la voce di dio che ingiunge che, prima della designazione, sia vendicato l’assassino di Nino. Entra una gran folla, tra cui un corteo di indiani comandati dal loro re Idreno, che ama la principessa Azema. Tra i satrapi e i grandi del regno entra Assur, convinto di diventare il nuovo re. Oroe si indigna per la sua sicumera, tanto più che fu proprio Assur a uccidere Nino. Giunge Semiramide, al cui arrivo il fuoco sacro dell’altare si spegne; Oroe avverte che questo è un segno dell’ira del dio. Dopo lunga assenza arriva a Belo il giovane comandante militare Arsace (“Eccomi alfine in Babilonia”), il quale non sa che Semiramide l’ha fatto richiamare perché vuol farne il nuovo re e il suo sposo; egli infatti è innamorato di Azema. Oroe lo accoglie con entusiasmo rivelandogli che Nino è stato ucciso e affidandogli il compito di vendicarlo. Assur è irritato per il ritorno di Arsace, a maggior ragine quando il giovane rivela il suo amore per Azema, che è amata anche da Assur (duetto “Bella imago degli dèi”). Semiramide frattanto esprime la sua gioia per il ritorno di Arsace (cavatina “Bel raggio lusinghiero”). Quando i due si incontrano, in un colloquio denso di equivoci, Arsace dimostra la sua casta dedizione alla regina (duetto “Serbami ognor sì fido”). Giunge il responso dell’oracolo di Menfi, che dice che i travagli del regno cesseranno con il ritorno di Arsace e con un nuovo matrimonio. Semiramide è decisa e annuncia a tutti il suo proposito di sposare Arsace. Questi e Azema rimangono stupiti. Assur freme di rabbia, e Oroe è sconvolto. Solo Idreno è felice di poter sposare Azema, della quale chiede la mano ottenendola. Ma un cattivo auspicio accompagna le nozze: si apre la tomba del re Nino tra tuoni e fulmini, e l’ombra compare parlando nel vestibolo: Arsace regnerà, dice, ma prima dovrà offrigli un sacrificio umano. Le nozze vengono rinviate tra il turbamento di tutti.
Atto secondo. Semiramide e Assur si confrontano (duetto “Se la vita ancor t’è cara?”); questi è adirato perché non è stato designato re, pur essendo stato amante e complice della regina nell’avvelenare Nino. Semiramide gli dice che per lui non c’è speranza e, in preda al rimorso, è fiduciosa che Arsace la saprà difendere. Oroe, nel frattempo, rivela ad Arsace la sua vera identità: egli è Ninia, figlio di Nino, che il padre morente affidò al fratello Fradate perché scampasse dalle mani di Assur. Il giovane si prepara alla vendetta e invoca il perdono per la madre. Mentre Azema si lamenta per essere stata separata da Arsace, Semiramide gioisce nel rincontrarlo. Ma quando Arsace gli spiega il motivo della sua ritrosia, mostrandogli la lettera di Fradate che rivela la sua identità, Semiramide inorridisce e gli dice di ucciderla (duetto “Ebbene... a te: ferisci”): ma Arsace la perdona promettendo che punirà Assur. Questi intanto si prepara a prendere il potere con la forza, ma i suoi figli gli dicono che Oroe ha aizzato il popolo contro di lui. Il suo fine è comunque l’uccisione di Arsace; si prepara a scendere nella tomba di Nino, ma qui spaventose visioni gli sbarrano il passo (aria “Deh... ti ferma... ti placa... perdona...”). Guidato da Oroe, anche Ninia scende nella tomba del padre per vendicarne l’uccisione, ma nell’ombra a cadere sotto la sua mano è la madre, non Assur. Sconvolto dal suo gesto vuole uccidersi, ma Oroe lo ferma; Ninia viene portato in trionfo e acclamato nuovo re dell’Assiria.
Si è detto diSemiramidein rapporto aTancredi: con la cautela che ogni processo di necessaria semplificazione impone, possiamo dire cheSemiramideè costruita sulla base di processi formali elaborati da Rossini all’epoca del suo primo successo serio,Tancrediappunto. Nelle opere napoletane egli aveva creato uno schema d’opera impostato su grandi blocchi musicali, specialmente pezzi d’insieme, numeri chiusi dilatati fino al punto da contenere in sé quelli che in altre opere sarebbero stati numeri separati. Anche i brani solistici, le arie, venivano impostate in modo niente affatto convenzionale, con una notevole varietà di soluzioni formali (ad esempio la romanza, il tema con variazioni); inoltre, non più standardizzato nella struttura della sinfonia prima dell’alzarsi del sipario appariva l’inizio dell’opera: a dimostrarlo il fatto che nessuna delle sette opere napoletane ha più una sinfonia di genere tradizionale. Infine il coro, che aveva assunto una importanza fondamentale nella definizione dell’azione drammatica. ConSemiramideRossini sorvola su queste sperimentazioni stilistiche ed elabora un impianto formale dalla chiarezza cristallina. Innanzitutto una sinfonia a sipario abbassato, una delle più elaborate e ricche dal punto di vista strumentale, con una scrittura per i fiati sontuosa nel primo tema, poi solo arie e duetti, nel numero di sei e quattro, nessun pezzo d’insieme se non l’introduzione e i due finali. Bisogna risalire fino aTancrediper trovare una simile assenza di concertati. E, come inTancredi, ciò che colpisce è la perfezione della forma di arie e duetti, impostati tutti, senza eccezione alcuna, sullo schema di cavatina, o parte cantabile, tempo di mezzo, dove il coro fa progredire lo sviluppo drammaturgico, e cabaletta conclusiva. Ma a dispetto di questa analogia con il primo dei trionfi rossiniani,Semiramiderivela la maturazione di dieci anni di intenso lavoro nello straordinario valore musicale di questi brani. Si pensi solo al caso dell’aria della follia di Assur nel secondo atto (“Deh... ti ferma... ti placa... perdona...”), dove pur all’interno di uno schema formale di chiarezza olimpica, apollinea, la materia musicale scorre febbrile nella descrizione delle allucinazioni del personaggio: nella elaborazione dei deliri diMacbethVerdi dovette aver ben presente questo altissimo esempio. Riguardo ai tre grandi blocchi d’insieme, va rilevata la singolarità di presentare il personaggio di Semiramide all’interno dell’introduzione pur senza darle una cavatina di sortita, che seguirà addirittura come quinto pezzo del primo atto. Si trattava di uno schema di introduzione alla Meyerbeer, come fece notare il librettista Gaetano Rossi allo stesso compositore tedesco. Di complessità ed estensione pari solo a quella delGuillaume Tell, questa introduzione comprende l’entrata dei vari gruppi corali e di tutti i personaggi tranne Arsace, che farà la sua comparsa nel brano successivo con un recitativo che è direttopendantdella sortita di Tancredi (“Oh patria”). Il finale primo ha anch’esso dimensioni monumentali, con la gemma del canone centrale (“Qual mestogemito”), accompagnato da una figura ritmica ostinata. Non meno efficace il finale secondo, dove spicca la preghiera di Semiramide (“Già il perfido discende”), il terzetto Semiramide, Arsace, Assur (“L’usato ardir”) e il coro di giubilo (“Vieni Arsace, al trionfo, alla reggia”), che chiude trionfalmente uno dei più sublimi vertici nella storia dell’opera italiana.