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 La donna del lago - G. Rossini

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MessaggioTitolo: La donna del lago - G. Rossini   La donna del lago - G. Rossini EmptyLun Gen 17, 2011 5:03 pm

Giacomo Leopardi scriveva da Roma al fratello Carlo, il 5 febbraio 1823, di aver assistito al Teatro Argentina allaDonna del lagoe di essere stato affascinato dalla musica rossiniana: «eseguita da voci sorprendenti, è cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacché m’avvedo pure di non averlo perduto affatto». Ma Leopardi continuava: «è intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s’usa d’uscire dal palco proprio...». Forse da queste parole ebbe origine un pregiudizio che gli studiosi si sono tramandati per qualche tempo, circa la disuguaglianza fra un primo atto dell’opera, denso di gemme musicali, e un secondo atto non all’altezza del primo, anche per cadute di interesse nell’azione. In realtà la condotta drammatica dellaDonna del lagoè simile a quella di tutte le opere serie del periodo rossiniano: solo nelle opere più mature di Donizetti e Bellini, per non parlare di Verdi, la costruzione drammatica sarà sapientemente costruita in ‘crescendo’, tutta puntata sul finale dell’ultimo atto. In quelle di Rossini non è mai così: il culmine dell’azione, della costruzione formale e musicale, e dell’interesse richiesto agli spettatori, si trova nel finale dell’atto primo. L’intero secondo atto può essere considerato un lento ‘diminuendo’ drammatico, ma questo non vuol dire che sia meno importante e trascurato: nel gioco di bilanciamenti e pesi drammatici, esso prevede sempre una sorta di ‘finale interno’ (un terzetto o un concertato ampio, a volte molto prima del finale ultimo vero e proprio), e le arie di congedo dei due o tre personaggi principali, secondo una disposizione calibrata come riflesso delle arie ‘di sortita’, quelle che presentavano per la prima volta i protagonisti nell’atto iniziale. È quanto avviene anche nellaDonna del lago, che accoglie nel suo secondo atto un complesso duetto che sfocia in un terzetto, centro drammatico di tutta la vicenda. Questa inizia, nel primo, con un vasto blocco musicale, che esula dalle introduzioni tradizionali delle opere serie (coro e sortita di un personaggio, oppure scena e concertato): in sostanza è un lungo duetto, che comincia nel primo quadro, viene ripreso e svolto compiutamente nel quadro successivo, dopo il recitativo, e forma una sorta di prologo separato dal resto dell’atto, esaurendo addirittura gli interventi di uno dei personaggi principali, Giacomo V, che ricompare solo all’inizio del secondo atto. Tre blocchi drammatici (introduzione ‘lunga’, finale primo, duetto-terzetto del secondo) costituiscono dunque l’impalcatura dell’opera; di questi, il secondo è il centro musicale e drammatico (il finale d’atto), il terzo è il momento di ‘catastrofe’ della vicenda, che poi può solamente sciogliersi nei rondò virtuosistici dei protagonisti, Malcom ed Elena.

L’interesse per l’ambientazione scozzese era vivo all’epoca dellaDonna del lago, che rappresenta il primo melodramma italiano basato su un soggetto tratto da Walter Scott. La scelta forse non si deve al compositore: nella prefazione al libretto leggiamo che l’argomento «era già dall’Impresa de’ Reali Teatri destinato a trattarsi per una delle nuove Opere di questo anno». La vicenda è quella del poemetto narrativoThe Lady of the Lake, non ancora tradotto in italiano nel 1819 ma disponibile nella versione francese, sulla quale probabilmente lavorò Leone Andrea Tottola. Il libretto tiene conto anche della traduzione che Melchiorre Cesarotti aveva offerto (Padova 1763) degliOssianic poemsdi James Macpherson, che godevano ancora di vasta fortuna nel primo Ottocento. Si spiegano con il ricorso a Cesarotti citazioni e riferimenti al ‘clima ossianico’ assenti nel poema di Scott, e scelte metriche particolarmente innovative rispetto alla tradizione classicheggiante dell’opera seria italiana: ad esempio la ricchezza di combinazioni ritmiche e i giochi con le rime a metà verso. Più che la musica in sé, è forse l’ambientazione di molte scene a far sì cheLa donna del lagosia stata spesso considerata una delle prime opere romantiche italiane, o almeno la più romantica fra quelle del periodo italiano di Rossini.

In Scozia, a Stirling e nelle sue vicinanze, «sulla veduta del lago Kattrine, originato dalle acque cadenti, cui sovrasta ardito ponte di alberi». Un coro di pastori e pastorelle si intreccia a quello dei cacciatori, con effetti stereofonici in quanto questi ultimi, dall’alto di una rocca, rispondono sui richiami dei loro corni ai pastori, che agiscono in primo piano: la musica si impossessa dello spazio e questo è un motivo sconosciuto all’opera seria settecentesca. Si avanza Elena sul lago, sopra a un battello, cantando una melodia semplice e orecchiabile ma molto studiata nel fraseggio, (“O mattutini albori”), su un ritmo ondeggiante, da barcarola. Non è un’aria di sortita, è una semplice canzone che servirà quasi a identificare il personaggio del titolo, e a richiamare, quando sarà citata al termine del secondo atto, l’antefatto narrato nella prima parte dell’opera. Assistiamo all’incontro fra Elena e il re Giacomo V, che si aggira in incognito, durante la caccia, sotto il nome di Uberto. Elena offre subito ospitalità al finto cacciatore, accogliendolo sulla barchetta: il breve dialogo fra i due è cantato in recitativo e poi sulla ripresa della melodia di “O mattutini albori”. I cacciatori arrivano in primo piano, preoccupati per aver perso le tracce del loro compagno Uberto; essi levano una preghiera, prima di dividersi per cercarlo. Questi è frattanto giunto alla casa di Elena e trasalisce quando vede appese le insegne di un suo nemico, Douglas, caduto in disgrazia presso la corte e ritiratosi sui monti: Elena ne è la figlia. Le compagne giungono per rallegrarsi con lei delle sue imminenti nozze con ‘Rodrigo il forte’, capo dei clan alpini, che ha offerto protezione a Douglas. La temperatura emotiva si alza: Elena non nasconde la sua angoscia, Uberto è ormai invaghito di Elena e quando essa gli confida di non amare Rodrigo, egli fraintende e pensa per un momento di essere l’«altro amante». La cabaletta del lungo duetto, nel quale le sezioni intermedie vengono dilatate a dismisura da Rossini, è un esempio ditransfertmusicale, come lo sarà il primo duetto fra Arsace e Semiramide nellaSemiramide: un gesto troppo audace di Uberto viene in apparenza rimproverato da Elena, ma nell’inconscio della donna suscita un’ondata di passionalità, diretta a colui del quale Elena è innamorata, il guerriero Malcom, ma espressa musicalmente proprio nei confronti di Uberto (in mancanza d’altro...), a sua volta preda del ritmo vorticoso e della figura vocale ascendente e poi bruscamente discendente che caratterizza l’avvio del brano. Con la scena seguente siamo introdotti a uno dei luoghi d’obbligo dell’opera seria: l’ingresso dell’amante-eroe, connotato dal libretto di alcuni tratti ombrosi e malinconici («si avanza concentrato, ed a passo lento, il giovine Malcom... si scuote dal suo letargo, guarda mestamente intorno...»), e dipinto da Rossini con una cavatina (“Elena, oh tu, ch’io chiamo”) densa di melismi che illustrano l’abbandono struggente dei versi «Grata a me fia la morte/ se Elena mia non è». Dopo la cabaletta virtuosistica (“Oh quante lacrime finor versai”), Malcom rimane in scena e ascolta di nascosto il dialogo fra Douglas e la figlia, che vorrebbe convincere il padre a rimandare le proprie nozze con Rodrigo. Douglas le impone severamente di obbedire e parte per incontrare Rodrigo. Malcom ed Elena si giurano fedeltà e intonano un duettino in un solo movimento. L’atmosfera marziale annunciata dalla precedente aria di Douglas, si impone ora con la scena dell’ingresso di Rodrigo, salutato dai suoi guerrieri e annunciato da una marcia per la quale viene utilizzata la banda sul palco, da Rossini impiegata per la prima volta l’anno precedente, inRicciardo e Zoraide. La seconda sezione dell’aria di Rodrigo è dedicata al pensiero di Elena, di cui anche il guerriero è innamorato. Nella scena di Rodrigo sono intrecciate le due dimensioni espressive sulle quali è costruito l’intero finale d’atto: momenti privati di intima lacerazione (“Come celar le smanie”, intonato da Elena nel terzetto che costituisce il primo tempo del finale) si alternano a momenti pubblici, ‘politici’, di impeto patriottico e bellico. Fra questi vi sono l’entrata di Malcom al suono della banda e il grandioso coro dei bardi che conclude l’atto in una stretta elaborata. È abbastanza singolare la scelta del librettista, di concludere la scena puntando sull’effetto corale e relegando i drammi intimi dei protagonisti sullo sfondo: quando viene annunciato l’arrivo di un drappello nemico, un giuramento solenne è proposto da Rodrigo e ripreso da tutti i guerrieri; un crescendo orchestrale porta al canto di guerra sciolto dai «sacri cantori» per infondere coraggio, in tonalità maggiore (“Già un raggio forier”), al quale rispondono le donne in tonalità minore. L’accompagnamento dell’arpa e l’indicazionemoderatohanno forse tratto in inganno alcuni direttori d’orchestra e alcuni commentatori, che definiscono questa pagina in termini di raffinata eleganza. In realtà, la costruzione contrappuntistica dei motivi, nello sviluppo del brano (si veda la ripresa del tema ‘bandistico’ dell’entrata di Malcom), ne fa una delle pagine più dense del Rossini napoletano: una pagina decisamente marziale e vigorosa, che il compositore rielaborò comeCoro per il terzo centenario della nascita del Tasso(1844) e comeGrido di esultazione riconoscente al sommo pontefice Pio IX(1846).

Elegante e raffinata è invece la cavatina di apertura del secondo atto, introdotta dal corno solista e cantata da Uberto (“O fiamma soave”), che si aggira per una «folta boscaglia», in abito da pastore: ha scoperto il rifugio in cui è nascosta Elena, mentre continua la guerra fra i clan alpini e le truppe del re. Quando egli trova il coraggio di dichiarare il proprio amore alla donna, questa è oppressa dall’affanno e dall’imbarazzo. Uberto decide civilmente di non importunare più l’amata e prima di partire le dona un anello con il quale essa potrà domandare al re la grazia per i suoi congiunti, ma i due sono sorpresi da Rodrigo, che chiama a raccolta i guerrieri e sfida il rivale. Senza cesure il brano iniziato come duetto (“Alla ragion deh rieda”) si sviluppa nel complesso terzetto, che ne costituisce la grandiosa stretta. Sorprendente è il tempo lento del duetto, “Nume se a miei sospiri”, in cui Rossini inserisce alternativamente i versi cantati da Elena e Uberto ‘fra sé’, come se fossero su due piani paralleli: per alcune battute, Elena canta le sue frasi in una tonalità (la bemolle maggiore, su un accompagnamento di terzine, ai fiati) e Uberto inserisce i suoi interventi in un’altra (do minore, su tremolo degli archi), senza che le due prospettive si fondano, se non al termine, quando finalmente i personaggi cantano assieme (in seste parallele), anche se riaffiorano i minacciosi tremoli degli archi, in orchestra. È qui evidente uno degli artifici di cui dispone il compositore-narratore, per rendere l’alternanza dei punti di vista, delle prospettive dei personaggi, in una sorta di ‘montaggio parallelo’. L’inizio della prima cabaletta del duetto è anche l’inizio del terzetto, perché alla melodia discendente, a canone, di Elena e Uberto (“Qual pena in me già desta”), si aggiunge la frase, paralizzata su una stessa nota, di Rodrigo (“Misere mie pupille”), nascosto a spiare i due. La gelosia di Rodrigo prorompe poi in una cascata di virtuosismi, ripresi e imitati da Uberto: Elena è circondata da due spasimanti non graditi, l’effetto stereofonico di eco fra le voci che si imitano nelle frasi virtuosistiche accentua l’idea di soffocamento, e indica che il ‘punto di vista’, in questa scena, è quello della protagonista. Quando Rodrigo si svela e chiama i guerrieri, all’accendersi del duello Elena esplode in una frase scolpita in tonalità minore (“Io son la misera”), che focalizza il suo sconvolgimento ed è ripresa a canone dai due rivali, generando un altro intreccio contrappuntistico e imitativo fra le voci.

Formalmente più convenzionale è il seguito dell’opera: Malcom viene a sapere che Elena si è recata alla corte del re, per salvare il padre, costituitosi. Nella battaglia hanno prevalso le truppe reali e Rodrigo è stato ucciso nel duello con l’ignoto rivale. A corte, Elena chiede di essere ammessa alla presenza del re per mostrargli l’anello donatole da Uberto e chiedere così la grazia per Douglas. Ascolta la voce di Uberto che intona, su diverse parole, la melodia di “O mattutini albori” e apprende che egli è in realtà Giacomo V. Il re concede grazia a Douglas e a Malcom: Elena può intonare “Tanti affetti in un momento”, fuoco d’artificio che suggella il lieto fine e che sarà ripreso inBianca e Fallieroe per il rifacimento veneziano delMaometto II.

Penultima delle nove opere serie scritte da Rossini per Napoli, laDonna del lagoè la terza delle quattro nate nel 1819: segue la napoletanaErmionee il ‘centone’ organizzato per Venezia,Eduardo e Cristina. In realtà, dopoErmioneRossini non avrebbe dovuto scrivere per Barbaja fino alla quaresima dell’anno successivo, ma ilforfaitdi Gaspare Spontini, scritturato al San Carlo e richiesto imperiosamente nello stesso tempo a Berlino da Federico Guglielmo III di Prussia, obbligò l’impresario a ricorrere nuovamente al Pesarese per colmare il vuoto nel cartellone. A Rossini fu necessario l’aiuto di un collaboratore, che stese quasi tutti i recitativi accompagnati e compose l’aria di Douglas. L’opera andò in scena al San Carlo di Napoli con Isabella Colbran, Rosmunda Pisaroni, Andrea Nozzari, Giovanni David e Michele Benedetti: una compagnia già sperimentata nelRicciardoe nell’Ermione. L’ultima rappresentazione ottocentesca sembra essere stata quella del 1860 a Trieste; poi, un lungo oblio fino alle riprese moderne, ampiamente rimaneggiate: al Maggio musicale fiorentino (1958, direttore Tullio Serafin), a Londra (1969, Camden Town Hall, con Kiri Te Kanawa), alla Rai di Torino (1970, con Montserrat Caballé), al Comunale di Bologna (1975, con Angeles Gulin). La prima ripresa autentica, integrale e basata sull’edizione critica di H. Colin Slim (edita solo nel 1990), è quella del settembre 1981 al Rossini Opera Festival pesarese, direttore Maurizio Pollini, interpreti Lella Cuberli e Martine Dupuy. Ricordiamo anche le rappresentazioni di Houston e New York (1981-82, con Marilyn Horne, Federica von Stade, Rockwell Blake e Dano Raffanti), la ripresa dell’allestimento di Pesaro nel 1983 (Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani) e l’edizione del Teatro alla Scala, diretta da Riccardo Muti nel 1992 (con June Anderson, Martine Dupuy, Chris Merritt e Rockwell Blake).


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