La scelta dell’argomento fiabesco dellaTurandotdi Carlo Gozzi condusse l’estrema fatica di Giacomo Puccini fuori dei territori prediletti dal suo teatro, quelli tra il realistico e il sentimentale, di cui le tre operine delTritticoavevano offerto un ultimo compendio. A suggerire a Puccini nel marzo 1920 la fiaba teatrale del veneziano Gozzi fu Renato Simoni, giornalista, specialista di teatro veneto e autore nel 1903 di una commedia fortunata, incentrata proprio sulla figura dell’antagonista di Goldoni, oltre che competente sinologo. Fin dall’inizio Simoni prospettò a Puccini un’opera rivolta alla «inverosimile umanità del fiabesco» e la cosa piacque al musicista che, già nella fase dei primi progetti, indicò nella «esaltazione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio» la chiave attraverso la quale reinterpretare il soggetto gozziano. Che Puccini ne fosse cosciente oppure no, ciò gli avrebbe dato possibilità di sviluppo drammatico assai diverse da quelle messe in atto, ad esempio, da Ferruccio Busoni nella suaTurandot(che, per inciso, è assai improbabile che egli avesse avuto modo di conoscere). Nella stesura del libretto Puccini affiancò a Simoni l’ormai collaudato Giuseppe Adami, intendendo così ristabilire quella collaborazione a tre, tra ideatore della trama (Simoni), versificatore (Adami) e musicista, che già era stata il metodo di lavoro con Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, dal quale erano nateBohème,ToscaeMadama Butterfly. E anche questo è un sintomo dell’impegno col quale, ormai ultrasessantenne, Puccini affrontò questa nuova impresa, che giudicava per lui estremamente difficile e, forse proprio per questo, l’avvio di una nuova fase: «Penso ora per ora – scriveva ad Adami – minuto per minuto aTurandote tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più».
Le difficoltà per Puccini si annidavano tutte nel carattere favoloso del soggetto gozziano. C’erano anzitutto le maschere (nell’originale Tartaglia, Pantalone, Truffaldino e Brighella), che gli autori risolsero di trasformare nei terzetto dei ministri Ping Pang e Pong, portatori di una nota di colore cinese (nei loro interventi si concentra buona parte del materiale musicale cinese dell’opera), ma soprattutto, sul modello deifoolsshakespeariani, elemento univoco di commento disincantato, ironico e grottesco, talvolta perfino cinico, della realtà che li circonda. C’era il problema di trasformare la principessa Turandot da fanciulla capricciosa in esecutrice tragica di una missione sacrale di vendetta nei confronti dei suoi pretendenti; ai quali ricambiare l’onta subita dalla principessa Lo-u-ling, sua «ava dolce e serena», rapita dalla reggia e morta per difendere la propria purezza da uno straniero, tartaro come il principe ignoto che ella affronta nella prova decisiva. C’era, infine, la necessità di dare uno spessore eroico al personaggio del principe ignoto Calaf: soltanto così, infatti, sarebbe stata credibile la sfida ingaggiata con la principessa, in cui la posta è la sua stessa vita. Ma la scelta pucciniana decisiva, quella che gli consentì di differenziarsi in modo radicale da Gozzi, fu l’invenzione del personaggio della giovane schiava Liù e l’introduzione dell’elemento patetico attraverso la sua morte. Il sacrificio per amore di Liù e il bacio sensuale di Calaf nel duetto del terzo atto sono infatti le tappe verso le quali Puccini fa convergere tutto l’apparato simbolico diTurandot, in vista dello ‘sgelamento’ della principessa crudele e glaciale, del superamento del trauma ancestrale che la spinge a odiare la parte maschile dell’umanità e, come egli diceva, del suo conseguente «ingresso tra gli umani per via dell’amore».
Atto primo. A Pechino, in un imprecisato e mitico «tempo delle favole». Gli spalti delle mura della città imperiale appaiono nella luce sfolgorante del tramonto, sui quali campeggia, ammonimento sinistro, una teoria di pali con infissi i teschi dei pretendenti giustiziati dalla crudele principessa Turandot. Gli spalti sono interrotti da un loggiato, ai piedi del quale si trova il grande gong di bronzo, il cui suono dà avvio alla partita con la morte degli enigmi di Turandot; Pechino scintilla dorata in lontananza. Dall’alto delle mura, su una musica tagliente e dissonante che nel corso di tutta l’opera sta in relazione con la crudeltà della protagonista, il mandarino si appresta ad annunciare la «legge di Turandot» alla folla multicolore che si accalca nel palazzo imperiale: la principessa andrà sposa a chi, di sangue regale, scioglierà i tre enigmi da lei proposti; ma il boia Pu-Tin-Pao è pronto a decapitare quelli che falliscono, come lo sfortunato principe di Persia, che salirà al patibolo al sorgere della luna. La folla, eccitata dalla notizia, muove verso la reggia invocando Pu-Tin-Pao e travolge il vecchio Timur, re tartaro spodestato, e la piccola Liù, che invoca per lui soccorso. È qui che il principe Calaf ritrova il padre, ne ascolta la storia (“Perduta la battaglia, vecchio re senza regno”) e quella di Liù, la fanciulla che ha condiviso le sofferenze di Timur soltanto perché lui, Calaf, un giorno, nella reggia le aveva sorriso. Si avanzano i servi del boia intenti ad affilare la lama della spada di Pu-Tin-Pao nel corso di un coro selvaggio (“Ungi, arrota, che la lama guizzi”). Nel frattempo il cielo si è oscurato e gli astanti invocano la luna (gli epiteti ne mettono in evidenza il sinistro livore: «faccia pallida», «testa mozza», «o esangue, o squallida», «o amante smunta dei morti») e, al sorgere di questa, il boia Pu-Tin-Pao. Il corteo del principe di Persia è aperto dal canto di una schiera di ragazzi (“Là sui monti dell’est”), impostato su una delle melodie cinesi autentiche presenti nell’opera, quella di ‘Mo li hua’ (Fior di gelsomino), che da qui in avanti è sempre posta in relazione al fascino incantatore della principessa. Sulle note lugubri di un «tempo di marcia funebre», avanzano i sacerdoti con le offerte, i mandarini e gli alti dignitari. Nel frattempo i riflessi dorati dell’inizio si trasformano in livori argentei: Turandot, colpita da un raggio di luna, appare sul loggiato «come una visione» e risponde con gesto imperioso di condanna alle richieste di grazia della folla. Sulle note del corteo che, seguito dalla folla, si allontana oltre gli spalti, il principe Calaf, rapito dall’inattesa visione di bellezza, rimane immobile ed estatico (“Non senti? Il suo profumo nell’aria”), prima di avanzare verso il gong, proprio mentre si ode da lontano il grido straziato del principe di Persia. Timur, poi Liù, quindi i tre ministri-maschera Ping, Pang e Pong tentano di dissuaderlo: l’uno giocando la carta della pietà filiale (“Stringiti a me”), l’altro quella del proprio amore segreto; i tre, serrandolo dappresso tutt’insieme con un terzetto, nel quale dapprima gli parlano delle nefandezze che si compiono nel Palazzo Imperiale («Qui si strozza! Si sgozza!/ Si trivella! Si spella!/ Si uncina e scapitozza!/ Si sega e si sbudella!»), quindi si provano a ridimensionare la bellezza di Turandot («se la spogli nuda,/ È carne! Carne cruda!/ Roba che non si mangia») rispetto alle molteplici gioie che la vita riserva e, infine, di spaventarlo descrivendogli l’oscurità degli enigmi (“Notte senza lumicino”). Nulla però sembra smuovere il principe ignoto dal folle proposito, verso il quale lo spingono anche le apparizioni spettrali delle ombre dei morti per Turandot (“Non indugiare! Se chiami appare/ quella che, estinti, ci fa sognare!”); non serve neppure l’accorata preghiera di Liù (“Signore, ascolta”), che Puccini intona con una delle melodie più patetiche dell’opera. Attratto con tutte le sue fibre dal «fulgido volto» della principessa, Calaf come un forsennato dà tre colpi nel gong, ogni volta invocando il nome di Turandot, al quale Liù, Timur e i tre ministri rispondono con «la morte!».
Atto secondo.Quadro primo. Dopo l’affresco cerimoniale folgorante e sinistro del primo atto, culminato nella tensione del gesto di sfida del principe ignoto, il primo quadro è una sorta di intermezzo: quello che Puccini nella corrrispondenza con i librettisti chiamava anche il «fuoribordo». I tre ministri Ping, Pang e Pong si ritrovano nella loro tenda, decorata con strane figure simboliche cinesi, a ripassare sia il protocollo nuziale sia quello funebre, per esser pronti ad allestire l’uno o l’altro a secondo dell’esito della nuova sfida lanciata a Turandot dal principe ignoto. Stanchi dell’infinita crudeltà della principessa, i tre si abbandonano al ricordo dei tempi felici anteriori alla sua nascita, allorché «tutto andava secondo/ l’antichissima regola del mondo», nonché alla rievocazione nostalgica della tranquillità della vita lontano dalla corte (“Ho una casa nell’Honan”). E mentre la reggia già ferve di preparativi per l’ennesima prova degli enigmi, sulla ripresa del coro dei servi del carnefice del primo atto, essi invocano la resa della principessa e, quasi sognando, immaginano di approntare l’alcova per la prima notte d’amore di colei «che fu ghiaccio» e che «ora vampa ed ardor» (“O Tigre, o Tigre, o grande Marescialla del cielo”).Quadro secondo. La vicenda ritorna nel vivo con la prova degli enigmi, una volta che la corte imperiale ha preso posto sull’enorme scalinata di marmo che sta al centro del piazzale della reggia: i mandarini nelle loro vesti azzurro e oro, gli otto sapienti con gran pompa sulla sommità della scalinata, i tre ministri in abito giallo da cerimonia, quindi, vecchissimo e ieratico, l’imperatore Altoum in veste bianca, tra le nuvole d’incenso e lo sventolio degli stendardi bianchi e gialli. In quello che è un vero e proprio rito di investitura alla prova di Turandot, nel quale spicca l’opposizione tra la voce tenorile fioca ed esangue dell’imperatore e quella giovane e vigorosa di Calaf, ai tentativi estremi di dissuasione del decrepito Altoum (“Basta sangue, giovine va’”), ostinato il principe ignoto risponde per tre volte con la medesima frase: «Figlio del cielo, io chiedo/ d’affrontare la prova». Il mandarino bandisce la nuova prova sulla stessa musica dissonante udita all’inizio del primo atto. La principessa si avanza, preceduta dalla melodia cinese ‘Mo li hua’ cantata dai ragazzi, e va a collocarsi ai piedi del trono, «bellissima, impassibile»: guardando con occhi «freddissimi» il principe ignoto. Nell’aria che segue (“In questa reggia, or son mill’anni e mille”), essa spiega le ragioni della sua ferocia. Propone quindi al principe ignoto i tre enigmi, scanditi dal motivo della crudeltà, le cui soluzioni (speranza, sangue, Turandot) sono strettamente implicate con la sfera simbolica dell’opera. Vinta dal principe, ma non doma, Turandot implora invano il padre Altoum di salvarla dalle «braccia dello straniero», invocando la propria sacralità e prospettando al principe tutto il proprio odio. Ma è lo stesso Calaf, con gesto di generosità, a rinunciare alla vittoria e a proporre a sua volta una prova a Turandot: qualora essa avesse saputo svelarne il nome prima dell’alba, egli avrebbe accettato di morire.
Atto terzo.Quadro primo. Nel giardino della reggia per un notturno gravido d’attesa, solcato dagli echi delle voci degli araldi che diffondono la volontà di Turandot: tutti veglino e cerchino di conoscere il nome del principe ignoto. Anche Calaf veglia e ascolta «come se quasi più non vivesse nella realtà», proiettato ormai verso la vittoria definitiva dell’alba e del bacio a Turandot («Il nome mio nessun saprà/ sulla tua bocca lo dirò/ quando la luce splenderà»). È questa l’occasione per la tipica aria tenorile pucciniana, di grande slancio lirico (“Nessun dorma”). Per carpire il nome del principe ignoto, e salvarsi così dall’efferata vendetta di Turdandot, i tre ministri gli offrono l’amore di fanciulle bellissime e procaci, la ricchezza, la gloria di essere stato il solo vincitore della spietata principessa. All’ennesimo rifiuto del principe, un gruppo di sgherri introduce Timur e Liù logori e insanguinati, sospettati di essere a conoscenza del nome segreto. Liù, però, non è disposta a tradire Calaf e, lei piccola schiava, affronta con determinazione la principessa di gelo (“Tanto amore segreto” e “Tu che di gel sei cinta”), la tortura e il suicidio per dare la vittoria all’uomo che ama. Il compianto accorato di Timur e di Calaf sul corpo di Liù morta avvia il mesto corteo funebre, che sta in parallelo con quello per lo sfortunato principe di Persia nel primo atto. (Fin qui la parte dell’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte il 29 novembre 1924; la partitura dell’ultimo episodio, quello cruciale in cui la principessa è scossa e trasformata dall’amore, fu realizzata in seguito da Franco Alfano, sulla base dei fogli di abbozzi pucciniani.) All’uscita della folla, Turandot e il principe ignoto rimangono soli, l’uno di fronte all’altra. Calaf con l’impeto della passione riesce a baciare la principessa, la quale, come trasfigurata, rimane senza voce, né forza, né volontà. Ormai si levano le prime luci dell’alba, e Calaf rivela il proprio nome a Turandot, dopo che essa gli ha confessato il «brivido fatale» da cui fu colta al suo arrivo, l’odio e l’amore suscitato in lei dalla sua «superba certezza».Quadro secondo. È un quadro brevissimo, che funge da epilogo all’opera: l’imperatore, circondato dalla corte, dai dignitari, dai sapienti e dai soldati, si presenta alla folla insieme a Turandot e al principe non più ignoto. La principessa annuncia di conoscere finalmente il nome dello straniero: «amore».
Più che nelle azioni in sé, peraltro risolte prevalentemente in gesti cerimoniali che talvolta, come nel finale del primo atto si configurano alla maniera ditableaux, inTurandotil processo di umanizzazione della protagonista è reso scenicamente evidente in una serie di contrapposizioni frontali: il tepore dei riflessi dorati e il freddo livore di quelli argentei, la luna e il sole, il tramonto e l’alba, la crudeltà di Turandot e il sacrificio di Liù, il fallimento del principe di Persia e il successo del principe ignoto, il corpo gelido della principessa illuminato dalla luce tagliente della luna e le «mani brucianti» con cui Calaf la stringe nella morsa dell’amplesso, la morte e l’amore. Sono questi gli elementi che la musica mette i risalto, ritagliando all’interno degli atti blocchi compatti e distinti l’uno dall’altro, concepiti ora sulla base dell’esotismo, inteso come fatto linguistico capace di rinnovare le stanche strutture della musica occidentale, ora sul libero impiego di agglomerati armonici e di intervalli dissonanti, ora sulla melodia sentimentale e patetica del più consueto stile pucciniano. In questa scelta deliberatamente pluristilistica risiede la modernità musicale di un lavoro comeTurandot, fondato su una solida impalcatura tematica e sinfonica. Ma d’altra parte un senso di modernità si coglie anche nella volontà dell’autore di ripercorrere gli schemi formali in uso nel melodramma ottocentesco (le ‘solite forme’ delle arie e dei duetti) con la meticolosità calcolata dei recuperi di procedimenti ormai desueti. E, forse, proprio per questo balzo in avanti Puccini non riuscì a trovare la soluzione giusta per il duetto finale, nonostante i numerosi abbozzi e i mesi intercorsi tra il completamento del resto dell’opera, l’insorgere della malattia e la morte. I mezzi per suscitare ‘commozione’ per una figura tragica come quella della principessa crudele, destituita di ogni concretezza sentimentale ed elevata a simbolo, non avrebbero potuto essere quelli già utilizzati per personaggi umanissimi come Mimì o Butterfly. Nonostante il completamento di Alfano,Turandotè così rimasta uno dei capolavori incompiuti del teatro musicale novecentesco (e tale lo dovette considerare Arturo Toscanini quando, alla ‘prima’ scaligera del 1926, interruppe l’esecuzione lì dove Puccini aveva terminato di scrivere l’opera in partitura, dopo la morte di Liù). Il compianto funebre per Liù rimane perciò l’epitaffio pucciniano della sua idea dell’opera e, contemporaneamente, di tutto il melodramma dell’Ottocento.