È raro che un’opera ispiri un romanzo e non viceversa, eppure la pubblicazione deLa peripezia d’Ulisse overo La casta Penelope(Surian, Venezia 1640) testimonia il successo del lavoro che segna il riavvicinamento di Monteverdi, Maestro di cappella della Serenissima, al teatro. Confessa Federico Malipiero, autore del romanzo: «M’apportò ‘l caso ne’ Veneti Teatri a vedere l’Ulisse in Patria... rappresentato con quello splendore, ch’è per renderlo memorabile in ogni secolo. M’allettò così l’epico della Poesia, com’il delicato della Musica, ch’io non seppi rattenerne la penna». Questo ci testimonia la data della prima rappresentazione, di cui è incerto il teatro (San Cassiano o Ss. Giovanni e Paolo?). L’opera fu replicata l’anno successivo, dopo le recite bolognesi curate dalla compagnia di Francesco Manelli e Benedetto Ferrari.
La vicenda segue fedelmente l’Odissea(libri XIII-XXIII): la raccontiamo riferendoci all’unico manoscritto della partitura, conservato a Vienna.
Atto primo. Dopo il prologo, in cui l’Humana Fragilità si contrappone al Tempo, alla Fortuna e ad Amore, ascoltiamo una delle più intense pagine dell’opera, il lamento di Penelope (“Di misera regina”) scandito da ripetizioni testuali e dal ritorno di arcate melodiche espressivamente scolpite (“Tu sol del tuo tornar perdesti il giorno”, “Torna deh torna Ulisse”). Al dolore segue una ventata di freschezza e gioia di vivere: l’ancella Melanto intreccia un duetto con il suo Eurimaco. I Feaci sbarcano sulla spiaggia di Itaca per deporvi Ulisse addormentato, salpano cantando una canzonetta che rivela il loro agnosticismo, ma, colpevoli di aver trasgredito al volere dell’inviperito Nettuno, vengono mutati in scoglio. Ulisse si sveglia, è solo. Inizia con fatica un monologo in cui dà sfogo alla disperazione: si crede ingannato dai Feaci. Un pastorello si avanza cantando spensieratamente, gli annuncia di trovarsi a Itaca e rivela di essere Minerva. Ulisse manifesta la propria gioia (“O fortunato Ulisse”) e si reca alla reggia occupata dai Proci, sotto le vesti in anziano mendicante. Melanto cerca di convincere Penelope a non sprezzare «gli ardori de’ viventi Amatori», ma la regina è ferma nel suo rifiuto. Seguendo un diffusotoposletterario, Eumete canta l’elogio della vita serena dei campi (il parassita Iro non è dello stesso parere, preferisce i pranzi di corte). Quando il finto mendicante annuncia che Ulisse è vivo, Eumete gli offre con gioia ospitalità ed amicizia.
Atto secondo. Telemaco viene condotto a Itaca da Minerva ed è accolto da Eumete, che invita il mendicante a cantare per rendergli omaggio (in “Dolce speme i cor lusinga” le voci si avvitano su un ostinato tetracordo discendente: proprio come nel duetto inserito, con ben altri intenti, al termine dellaPoppea). Quando Telemaco e il padre rimangono soli, con un incantesimo Ulisse riprende le sue sembianze e si fa riconoscere: si alternano sgomento, incredulità, un’oasi di stupefatta cantabilità a due voci (“Oh Padre sospirato”), un’energica sezione ‘positiva’ e quasi marziale; l’ultima frase di Ulisse stempera nella speranza la tensione psicologica precedente. A un intermezzo a sfondo amoroso tra Melanto ed Eurimaco segue la scena in cui Antinoo, Anfinomo e Pisandro rinnovano le proposte di matrimonio a Penelope, che rifiuta garbatamente. Si alternano due sequenze: il terzetto dei Proci (“Ama dunque sì sì”) e la risposta della regina (“Non voglio amar no no”). Eumete annuncia il ritorno di Telemaco e i Proci tramano per sbarazzarsene: cantano spesso a tre, in polifonia, e Monteverdi è abilissimo nel rendere il passaggio dalla baldanza all’impietrirsi di paura quando osservano che un’aquila vola sul loro capo, pessimo presagio. Telemaco racconta alla madre di aver incontrato Elena di Troia: il recitativo esitante, a tratti ritmicamente animato, svela il suo adolescenziale invaghimento per la bellissima donna; Penelope sibila seccata che Elena è una serpe. Eumete conduce il finto mendicante davanti ai Proci, con disappunto di Iro, che si crede usurpato. Volano insulti (Ulisse: «Trarrò il corpaccio tuo sotto il mio piede/ mostruoso animale», Iro: «Rimbambito guerriero... ti strappo i peli della barba ad uno ad uno») e nella zuffa Iro viene sconfitto. È il momento della gara dell’arco di Ulisse. Invano i tre pretendenti cercano di tenderlo, solo il mendicante riesce a caricarlo per iniziare la strage dei Proci. È una scena lunga e varia, gli interventi strumentali ne scandiscono i passi importanti: la sinfonia che accompagna la zuffa con Iro è quella che si ascolterà dopo la prova di Ulisse, come preludio alla strage; con un terzetto ricco di melismi, ma venato da un’ombra di tristezza, i Proci si presentano alla gara; a turno, introdotti sempre da una sinfonia, levano un’invocazione prima di cimentarsi e ogni volta la melodia spiegata ricade nel mortificato recitativo, punteggiato da pause, che rende lo sforzo e la delusione del pretendente.
Atto terzo. Iro descrive la strage e il suo dolore: è terrorizzato, si fissa su un’unica nota lunghissima mentre il basso parodizza il suo sconvolgimento interiore. Ritroveremo la varietà di gesti vocali di questa scena nelle scene di pazzia delle successive opere veneziane: il recitativo è spezzato da pause, la voce si inceppa su ripetizioni di parole, sillabe, incisi melodici brevissimi, su un ritornello infantile (“Chi ne consola”), su una risata esterrefatta e isterica («qui cade in riso naturale» si legge dopo un trillo, in partitura). Eumete e Telemaco cercano di convincere Penelope a riconoscere Ulisse. Nell’intermedio ‘marittimo’ Minerva, Giunone, Giove e Nettuno risolvono di dar fine alle peripezie di Ulisse e un doppio coro a otto voci conclude la scena. La nutrice Ericlea è interdetta: deve rivelare a Penelope il segreto che ha scoperto (la cicatrice di Ulisse, segno di sicuro riconoscimento)? Sarà Ulisse in persona a farsi riconoscere dalla sposa, descrivendole la coperta nuziale mai vista da nessuno al di fuori del marito. “Illustratevi o Cieli” è lo sfogo melodico di Penelope, misuratissimo e rasserenante, in cui ogni verso è ripetuto ad eco dagli strumenti. Il successivo duetto (“Sospirato mio Sole”) chiude l’opera in una tonalità crepuscolare, in quel registro degli affetti quotidiani al quale molto spazio ha riservato il compositore nel corso dell’azione, a scandirne i momenti di riposo, quando i personaggi riprendono fiato prima e dopo i momenti emotivamente più impegnativi o vocalmente più impervi.
Questi rifugi in una dimensione ‘bucolica’, media, caratterizzano quasi ogni intervento del pastore Eumete e dello stesso protagonista quando è travestito da mendicante. Ma ogni personaggio è in genere connotato da un modo espressivo adatto al suo rango e alla sua tempra: la dimensione sovraumana delle divinità è resa dallo stile alto, melismatico; all’opposto, Melanto ed Eurimaco intervengono sempre con facili canzonette. Penelope declama un recitativo severo, nello stile tragico di Ulisse, il quale però, nella condizione di finto mendicante, si permette alcune deroghe e imita lo stile umile di Iro. Antinoo si esprime con un declamato impervio di sbalzi, segno di statura sociale elevata, ma anche di pravità: nel confronto con Eumete (II,12) i suoi sgraziati scarti di registro cozzano con la serena compostezza del recitativo del pastore, che rispecchia in uno stile medio la sua condizione inferiore, ma anche la sua civiltà. È una spia del sentimento antimonarchico che compare ogni tanto nei versi di questo personaggio (la polemica anticortigiana e repubblicana si insinua anche nei versi di Melanto in III,2 ed è una costante dei primi libretti veneziani, scritti da membri dell’Accademia degli Incogniti, organici agli ideali della Serenissima). L’attenzione ai diversi tipi di elocuzione crea una retorica vocale impiegata a fini teatrali: è importante il modo in cui i personaggi si esprimono, non tanto il contenuto musicale dei loro interventi. Il registro stilistico scelto di volta in volta diventa funzionale al racconto, ad esempio quando un personaggio devia dal suo registro abituale per assumerne un altro. Si veda il primo incontro con Minerva: Ulisse si rivolge al pastorello parodiando lo stile umile della sua canzonetta e quando la dea a poco a poco si rivela, il recitativo del personaggio umano si eleva imitando i caratteri stilistici dell’interlocutore divino. Oppure la scena (I,10) in cui Melanto cerca di convincere la regina a concedersi all’amore e inizia a parlarle, assumendo per un momento lo stesso stile espressivo del lamento di Penelope. Il recitativo monteverdiano è ricchissimo di impennate liriche, incisi ripetuti e suggerimenti ritmici, che sembrano prendere il volo e poi ricadono nella declamazione libera; ciò soprattutto quando il testo suggerisce una particolare temperatura emotiva, ad esempio l’effusione di gioia. Lo spunto per tali momenti deriva quasi sempre dall’organizzazione formale dei versi, che, all’interno delle sequenze di sciolti, presenta microsistemi più regolari. In generale però Badoaro ignora i raggruppamenti strofici, a parte casi eccezionali e giustificati come canto verosimile. Il compositore interviene spesso, sovrappone una sua struttura formale al testo che ne è privo, organizza strofe o ripetizioni di versi, inserisce ritornelli strumentali: per esempio nel lamento di Penelope (I,1), nell’esplosione di gioia di Ulisse (I,9) o nella scena di Ericlea (III,
. In questi casi e nei momenti in cui il recitativo lievita ad arioso, in base ad esigenze teatrali e interpretative il compositore ritma le sue dimensioni temporali: forza il tempo rappresentato, quello dell’azione prevista nel testo, per dilatarlo nel tempo irreale della rappresentazione, seguendo la logica degli affetti e della musica.
IlRitornoè stato trascritto sontuosamente per orchestra moderna da Hans Werner Henze e così rappresentato a Salisburgo (1985). Le versioni di Nikolaus Harnoncourt (Vienna 1971) e di Raymond Leppard (Glyndebourne 1972), di gusto filologico, si basano invece sullo studio della prassi esecutiva dell’epoca.