Chi ha scritto la musica dell’Incoronazione di Poppea? Le due fonti che tramandano la partitura, molto diverse tra loro, riflettono versioni lontane dall’originale: nella copia conservata a Napoli è testimoniata la ripresa teatrale napoletana del 1651, allestita dalla compagnia itinerante dei Febiarmonici, mentre la copia veneziana è stata curata direttamente da Francesco Cavalli. Entrambe le partiture sembrano opera collettiva e forse già all’origine il settantacinquenne Monteverdi, al suo ultimo impegno teatrale, fu aiutato da collaboratori più giovani. Nessun indizio della sua paternità dell’opera proviene da fonti contemporanee: l’elogio funebre steso da Caberloti non la nomina, ricordando inveceAriannae, indirettamente,Orfeo.Connessioni stilistiche con la partitura delRitorno di Ulisse in patria, insieme alla forza e alla sintesi drammatica di alcuni dialoghi (ad esempio I,9), giustificano l’attribuzione monteverdiana di molte scene, almeno nella loro prima redazione. D’altro canto l’intero finale e quasi tutta la parte di Ottone sono stati composti da una mano diversa rispetto al resto della partitura. Altri passi isolati (il prologo, le scene seconda e quarta del secondo atto, la sinfonia finale) rivelano tratti stilistici che fanno pensare a uno o più compositori della generazione più giovane rispetto a quella di Monteverdi. Nomi dei probabili collaboratori: Benedetto Ferrari e Francesco Sacrati, del quale la recente scoperta della partitura deLa finta pazzaha permesso nuove e interessanti comparazioni stilistiche; a essi si aggiungono Francesco Manelli e Filiberto Laurenzi, autore di molte delle musiche deLa finta savia, su libretto di Giulio Strozzi, rappresentata al Teatro SS. Giovanni e Paolo nella stagione in cui fu allestita l’Incoronazione, con gli stessi interpreti. Questi furono Anna Renzi come Ottavia e Anna di Valerio come probabile Poppea, insieme al castrato Stefano Costa, possibile Nerone e ‘Rabocchio’ o ‘Corbacchio’, forse nella parte del paggio.
Fonti di quello che è il primo libretto di argomento storico per un melodramma (unici precedenti: le opere basate su leggende agiografiche, come il romanoSant’Alessio) sono alcuni passi degliAnnalidi Tacito in primo luogo, integrati da Svetonio, Cassio Dione e dalla tragediaOctavia, un tempo attribuita a Seneca, seguita molto da vicino in almeno una scena (I,9). Nel libretto compaiono anche temi comuni alla produzione di romanzi contemporanei, presenti in particolare neL’imperatrice ambiziosadi Federico Malipiero, che narra le vicende di Agrippina e accenna anche alla seduzione di Nerone da parte di Poppea. «Procuro applicar li vizij, come fanno li speziali veleni nelle medicine per guarire, non per gustare», scrive Malipiero per giustificare l’argomento amorale del suo romanzo: che sia questa anche la prospettiva con la quale interpretare l’atmosfera corrotta che avvolge le vicende del libretto di Gian Francesco Busenello? Certo che il testo riflette il sentimento antimonarchico e filo-repubblicano che legava gli intellettuali membri dell’Accademia degli Incogniti, come Busenello e Badoaro, librettista delRitorno di Ulisse in patria. Agli intrighi di palazzo e all’ambiguità morale che caratterizza ogni personaggio (anche il tradito Ottone e la regina ripudiata Ottavia), risalterebbe per contrasto la gloria della repubblica veneziana, patria di libertà. Alla luce dell’anticonformismo e del libertinismo professato nell’ambiente degli Incogniti interpretiamo alcune situazioni irriverenti del libretto, come la presentazione negativa del filosofo Seneca, i cui insegnamenti non servono alla disperata Ottavia. Egli viene irriso spudoratamente dal valletto (I,6), così come in precedenza era stato giudicato «vecchion rapace», «volpon sagace», «reo cortigiano», «empio architetto, / che si fa la casa sul sepolcro altrui», dagli assonnati soldati che piantonano la casa di Poppea mentre Nerone amoreggia con lei (I,2). La professione di fede marinista sostenuta calorosamente da Busenello (che intervenne nella polemica fra Marino e Stigliani successiva alla pubblicazione dell’Adone) spiega il pluristilismo del libretto, nel quale si avvicendano sequenze arditamente metaforiche e immaginose, espressioni umili, incursioni nei linguaggi tecnici (giuridico, filosofico, scientifico), versi spigliati ‘da canzonetta’.
Prologo. Amore dichiara la propria sovranità sulla Fortuna e sulla Virtù nell’influenzare le sorti dell’uomo: lo spettacolo che seguirà sarà la dimostrazione di questa tesi.
Atto primo. È l’alba: Ottone si aggira sotto i balconi dell’abitazione di Poppea nella speranza di incontrarla, cantando con struggimento una dolceaubadestrofica (“Apri un balcon, Poppea”), ma scorge due soldati di Nerone addormentati e fugge sconvolto per l’infedeltà dell’amante. Svegliatisi di soprassalto, i soldati maledicono “Amor, Poppea, Nerone,/ e Roma, e la Milizia” scambiandosi commenti sulla situazione precaria dell’impero e sulle vicende private di corte. Tacciono all’apparire di Poppea, che tenta di trattenere l’imperatore presso di lei (“Signor, deh non partire”). È la prima delle tre scene che vedono protagonisti i due amanti da soli. La parte di Poppea, qui come negli altri episodi di seduzione, si muove per intervalli morbidamente congiunti, sottolineando spesso gli accenti delle parole con intervalli di seconda diminuita, traducendo con dissonanze l’amarezza della partenza di Nerone e il suo (finto?) venir meno. Il compositore è abilissimo a frammentare il testo fra i due interlocutori, nel momento in cui Nerone si lascia strappare la promessa del ripudio di Ottavia: la disposizione testuale chiarifica che la promessa viene proprio estratta dalla bocca di Nerone da Poppea, che lo ha quasi ipnotizzato. Poppea, rimasta sola, non nasconde a se stessa la speranza di diventare imperatrice, ma la nutrice Arnalta, in una scena arricchita di sinfonie strumentali, la mette in guardia poiché «la pratica coi Regi è perigliosa». Il primo monologo dell’imperatrice Ottavia, “Disprezzata Regina” (I,5), segue l’impostazione tradizionale della scena di lamento: desolazione, cinica descrizione della sorte femminile, maledizioni contro l’uomo traditore, accuse concitate nei confronti delle divinità, sùbiti pentimenti e ricaduta nella depressione. A nulla vale la morale spicciola offerta dalla nutrice di Ottavia, in sequenze cantabili e in tempo ternario. Nessun giovamento trae Ottavia dal conforto filosofico propostole da Seneca con una declamazione ben più aulica e fiorita. Stizzito, un valletto si fa beffe del filosofo (“Queste del suo cervel mere invenzioni/ le vende per misteri, e son canzoni”), imitando sbadigli e starnuti. Seneca medita sull’infelicità nascosta sotto le «porpore regali» e viene visitato da Pallade, che gli annuncia la prossima fine, al che egli gioisce. Nerone comunica a Seneca la decisione di ripudiare Ottavia (I,9): ne nasce uno scontro sempre più serrato, durante il quale Nerone perde spesso la pazienza di fronte alle ferme risposte del maestro, che lo accusa di «irragionevole comando». In quella che è una delle scene più drammatiche dell’opera, importante anche per la sua posizione centrale e per il contenuto (la sconfitta morale di quello che, al termine dell’opera, sarà il vincitore Nerone, qui svelato nella sua immaturità politica ed esistenziale), la fiducia di sé che Seneca esprime si oppone alla crescente agitazione dell’imperatore, resa dagli scarti stilistici dei suoi interventi rispetto a quelli del filosofo, composti e nello stesso tempo veementi. Ripetizioni di parole, cambiamenti improvvisi di metro, impennate melodiche all’acuto, impiego del caratteristico ‘stile concitato’ (note ribattute velocemente) dipingono la furia crescente di Nerone; invece Seneca raramente ricorre a ripetizioni di parole e spesso chiude le frasi con cadenze perfette e retoricamente disegnate (quasi uno stilema ricorrente per il personaggio). Nerone è poi raggiunto da Poppea, la quale rinfresca all’imperatore il ricordo della notte passata e, dopo averlo portato al massimo dell’eccitazione, gli fa ordinare immediatamente la morte di Seneca. Poppea si scontra con Ottone, che le rimprovera la sua infedeltà e viene poi compatito da Arnalta: «Infelice garzone... quand’ero in altra età / non volevo gli amanti / in lagrime distrutti, / per compassion li contentavo tutti». Ottone è raggiunto dall’innamorata Drusilla, alla quale promette di dedicarsi, anche se commenta ironicamente fra sé: «Drusilla ho in bocca, et ho Poppea nel core».
Atto secondo. La prima parte dell’atto è tutta dedicata a Seneca, che dopo un breve monologo riceve il secondo annuncio della sua prossima morte, questa volta da Mercurio, che gli infonde serenità prima di volare via sull’onda del suo virtuosismo vocale. Un liberto comunica al filosofo l’ordine di Nerone: Seneca avvisa serenamente i famigliari, che prorompono in un’invocazione a tre voci (“Non morir Seneca, no”). Nella prima sequenza del brano, le voci entrano in imitazione su un soggetto e un basso cromatici, con un effetto di crescendo drammatico che sembra sincero. Nella seconda, ogni voce replica diatonicamente, su note ribattute, «io per me morir non vo’». Dopo un allegro ritornello, la terza sezione ne segue il ritmo di danza: ritornello e sezione ‘danzante’ sono ripetuti (le parole cambiano), dopo di che si torna indietro, con la seconda sezione e poi la prima, quella cromatica ed espressiva. Lo scanzonato ritornello chiude l’episodio. La scena successiva, come intermezzo di contrasto, presenta le schermaglie amorose del valletto e della damigella, una ventata di freschezza e distensione nell’atmosfera cupa della corte, un po’ come avveniva per gli interventi di Melanto ed Eurimaco nelRitorno di Ulisse. «Hor che Seneca è morto,/ cantiam, cantiam, Lucano»: all’invito di Nerone segue una lunga scena di canti in onore di Poppea. Nel libretto era prevista la presenza di altri personaggi (Petronio, Tigellino), ma il compositore sceglie di affidare solamente a Lucano la replica al protagonista. Le due voci si annodano e rincorrono, per scindersi su un ipnotico ostinato del basso: solo Lucano è in grado di continuare il canto («Bocca, bocca, che se ragioni o ridi»), Nerone emette sillabe e frasi spossate («Ahi, destin»). Ottavia ordina a uno sbigottito Ottone di uccidere Poppea. Entra in scena Drusilla, che si conferma come soprano-soubrette vagamente svampita. Essa è l’unica che osa sciogliere una melodia spiegata (“Felice cor mio, / festeggiami in seno”) nel clima pieno di sospetto del palazzo reale, senza assolutamente capire cosa le stia accadendo intorno. Trascinati dall’ottimismo di Drusilla, anche la nutrice e il valletto danno vita a una scena distensiva e comica. Ottone rinnova le sue promesse di fedeltà alla ragazza, chiedendole però di prestarle i suoi vestiti per compiere l’assassinio di Poppea. Drusilla sventatamente acconsente, non senza precisare con slancio: «e le vesti e le vene io ti darò». Frattanto Poppea si affida ad Amore per coronare i suoi sogni e si addormenta nel giardino di casa. Arnalta le canta una dolcissima ninna-nanna in tre strofe (“Oblivion soave” II,12). L’attentato di Ottone, travestito da donna, è impedito da Amore, che era sceso in terra per vegliare la sua protetta e aveva cantato un’aria in quattro strofe (“O sciocchi, o frali / sensi mortali”).
Atto terzo. Drusilla, sola in scena, canta un altro dei suoi motivetti cantabili, ma viene sorpresa e imprigionata, in quanto presunta autrice dell’attentato. Ottone confessa di essere il colpevole, su isitigazione di Ottavia; Nerone capisce di avere finalmente il pretesto per ripudiare l’imperatrice e spedisce Ottone e Drusilla in esilio. Un’altra scena fra Poppea e Nerone contiene il duetto “Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora”, ricco di slancio melodico soprattutto al verso «Stringimi tra le braccia innamorate». Seguono un monologo di Arnalta, felice per l’ascesa sociale di Poppea (e sua) e il lamento di Ottavia (“A Dio Roma, a Dio Patria, amici a Dio”). Incapace di pronunciare le parole, l’imperatrice ripudiata singhiozza su una nota (la ‘a’ di “A Dio Roma”), esprime il dolore per il trionfo delle «perverse genti», termina il suo asciutto monologo su un secco «A Dio». La scena dell’incoronazione vede Poppea acclamata da un coro di consoli e tribuni, e da un coro celeste, guidato da Venere in persona con Amore. Gli amanti intrecciano l’ultimo duetto, il seducente “Pur ti miro”, in cui le voci si annodano su un ostinato tetracordo discendente. Tale duetto probabilmente non era previsto nella prima rappresentazione veneziana, della quale rimane traccia solamente per la pubblicazione dello ‘scenario’. Il testo compare nel libretto di una ripresa bolognese (1641), e di altre successive, delPastor regiodi Benedetto Ferrari, ma anche nelTrionfo della faticamusicato da Filiberto Laurenzi (Roma 1647). Al termine della vicenda dell’Incoronazione, però, esso assume un altro e più pregnante significato drammatico e strutturale, rispetto a quelle occorrenze: sigla il trionfo degli amanti, facendo convergere le premesse poste dal duetto di Fortuna e Virtù nel prologo, e da quello di Lucano e Nerone (I,6), entrambi costruiti su un basso ostinato formato da un tetracordo discendente.
Suggerimenti formali per sequenze di cantabilità più regolare e arie vere e proprie non mancano nel libretto, metricamente e stroficamente articolatissimo. Il compositore accetta e moltiplica le occasioni per formare sequenze musicali unitarie, che si accompagnano a passi meno estesi segnati dal lievitare del recitativo in moduli più chiusi e melodici, spesso in corrispondenza delle ultime battute dell’intervento di un personaggio, o di una sua impennata espressiva. Il recitativo evidenzia concetti e parole-chiave secondo le più consumate raffinatezze della tecnica madrigalistica, per cui ogni ‘affetto’ viene messo a fuoco con una impressionante varietà di soluzioni musicali. È interessante notare la ‘regìa’ realizzata dal manipolatore dei frammenti testuali di Busenello, realizzando un ‘montaggio’ drammatico dagli effetti incalzanti, ritmicamente movimentati, quasi a costruire realisticamente i dialoghi cruciali: i personaggi si interrompono a vicenda e si parlano addosso, cosa raramente prevista dal libretto. Ad esempio, nella scena in cui Ottavia impone a Ottone di uccidere Poppea, il recitativo è realizzato con una serie di ripetizioni affannose («Vuò che l’uccida, vuò che l’uccida, vuò che l’uccida – Che uccida chi? Che uccida chi? Chi? – Poppea – Che uccida, che uccida, che uccida chi? – Poppea – Poppea? Poppea? Che uccida Poppea? – Poppea, Poppea...»). Ripetizioni testuali, tagli, illuminazioni melodiche di un frammento a scapito di un altro: tutto questo permette al compositore di forgiare una propria dimensione drammatica e di interpretare il testo, anche in senso opposto rispetto a quanto suggerito da Busenello. Il personaggio di Seneca ne è un esempio: l’ardore e lo slancio, poi la serena compostezza con cui affronta la morte, inquadrano il filosofo in una prospettiva molto più positiva rispetto a quello che si ricava dalla semplice lettura del libretto. Il compositore innalza Seneca a una statura morale elevata, ben al di sopra di tutti gli altri personaggi. Poppea è caratterizzata da un’abilità retorica eccezionale, piega il recitativo alla sua sensualità, ‘influenza’ le risposte che le dà Nerone e si abbandona con lui alle estasi melodiche: raffigurazione completa, con luci e ombre caravaggesche, della cortigiana aristocratica tra Cinquecento e Seicento, che univa bellezza, abilità dialettica, arte e cultura.
Hugo Goldschmidt (1904), Vincent d’Indy (1908), Gian Francesco Malipiero (1931) sono stati fra i primi a proporre edizioni moderne della partitura, rielaborata anche da Benvenuti, Krenek e Ghedini (l’edizione di Benvenuti, orchestrata con tinte wagneriane, è stata utilizzata per la rappresentazione scaligera del 1967, diretta da Bruno Maderna, nella quale cantavano Grace Bumbry, Giuseppe Di Stefano e Leyla Gencer). Alan Curtis ha recentemente curato l’edizione critica (1990): la sua interpretazione, ispirata ai criteri filologici del rispetto della partitura originaria, più volte incisa discograficamente, si aggiunge a quelle di Harnoncourt, Malgoire e Jacobs. La prima rappresentazione italiana in epoca moderna ebbe luogo al Liceo musicale di Torino, nel 1917, dodici anni dopo la ripresa parigina (in forma di concerto). La prima riproposta scenica italiana fu quella allestita al Giardino di Boboli per il Maggio musicale fiorentino del 1937, diretta da Gino Marinuzzi, con Gina Cigna, Giuseppina Cobelli, Tancredi Pasero e Magda Olivero. Fra le rappresentazioni più recenti ricordiamo quelle del Festival della Valle d’Itria (Martina Franca 1988, in versione integrale, con Daniela Dessì e Josella Ligi, direttore Zedda), del Teatro Comunale di Bologna (1993, con Anna Caterina Antonacci) e del Teatro alla Scala (1994).