La lugubre, almeno stando alla tradizione, figlia dei Borgia con il suo passato di assassini, incesti e veleni era soggetto fin troppo congeniale a certa ‘morbosa’ sensibilità romantica perché non fosse sfruttato. Victor Hugo – che conLe Roi s’amuse(da cui venne tratto il verdianoRigoletto) aveva già voluto ‘nobilitare’ la deformità fisica e morale di Triboulet per mezzo dell’affetto paterno – tentò analogo procedimento con Lucrezia. La duchessa di Ferrara trovò il suo riscatto nell’amore, puro e santo (visto il personaggio è il caso di precisarlo) per il figlio Gennaro. Il dramma, andato in scena a Parigi il 2 febbraio 1833, riscosse un notevole successo. La trama, con i suoi veleni, i suoi pugnali e le sue passioni esasperate, sembrava quasi pensata in anticipo per certa tradizione melodrammatica a forti tinte che, per merito di Donizetti, ebbe in seguito modo di concretizzarsi. Il compositore bergamasco, affrontando il soggetto di Victor Hugo nella traduzione efficace anche se per forza di cose sommaria di Felice Romani, non sottolineò il lato truculento dell’argomento. Un’eroina troppo ‘demoniaca’ poco si conciliava con le figure femminili del melodramma italiano ‘epoca 1830’, tendenzialmente angelicate e sempre idealizzate. Donizetti provvide quindi allo scopo: fin dal languido recitativo iniziale “Tranquillo ei posa”, il compositore accentua di Lucrezia l’aspetto patetico e trepidante della madre in ansia per le sorti del figlio. Solo occasionalmente il suo lato peccaminoso e aggressivo avrà modo di lasciarsi intravvedere.
Prologo. A Venezia durante il Rinascimento. È notte: Gennaro e i suoi amici, fra i quali Maffio Orsini, stanno partecipando a una festa mascherata a palazzo Grimani; nel corso della conversazione viene fatto il nome di Lucrezia Borgia. Orsini, che come tutti gli altri detesta la donna, narra agli amici l’infausta profezia di un indovino: «Fuggite i Borgia o giovani... Dov’è Lucrezia è morte». Gennaro, tediato dal racconto, si addormenta ed è lasciato solo dagli amici rientrati per le danze. Entra Lucrezia mascherata: il suo divorante affetto la spinge a contemplare il figlio (che non la conosce) addormentato (“Come è bello... Quale incanto”). Gennaro si sveglia e rimane affascinato dalla bella dama, alla quale racconta di non sapere chi sia sua madre; di lei conserva gelosamente una lettera in cui lo prega di non cercarla. Lucrezia, commossa, lo incita ad amarla teneramente (“Ama tua madre, e tenero”). Sopraggiungono gli altri, riconoscono la Borgia e, con sommo orrore di Gennaro, la maledicono.
Atto primo. A Ferrara, di notte. Mentre il duca Alfonso e Rustighello spiano l’abitazione di Gennaro, il duca è furioso poiché crede il giovane un amante di Lucrezia (“Vieni, la mia vendetta”); intanto escono Gennaro e gli amici, diretti alla festa della principessa Negroni. Gennaro, ancora sconvolto dall’incontro con la Borgia, giunto davanti al palazzo ducale cancella con il pugnale la ‘b’ del nome Borgia: appare così la parola ‘orgia’. Astolfo, una spia della duchessa, e Rustighello li osservano di nascosto. Poco dopo Rustighello informa il duca Alfonso che Gennaro è stato arrestato ed è a palazzo. Sopraggiunge Lucrezia, furiosa per l’oltraggio subito e decisa a ottenere vendetta. Ma quando la donna scopre che il colpevole è proprio Gennaro, implora il duca di salvarlo. Alfonso rifiuta, e la costringe a scegliere di quale morte egli dovrà perire: veleno o pugnale. Lucrezia sceglie il veleno, ma quando Gennaro ha bevuto il vino affatturato, gli offre un antidoto e lo fa fuggire da una porta segreta.
Atto secondo. Nel palazzo della principessa Negroni, Orsini, Gennaro e gli amici brindano e inneggiano al vino (“Il segreto per essere felici”). All’improvviso misteriose e minacciose voci si odono di fuori e, mentre le faci si spengono, compare Lucrezia Borgia. La duchessa avverte gli astanti che, per vendicare l’onta subita a Venezia, essi sono stati da lei avvelenati. Tremenda è l’angoscia della Borgia quando scopre che fra le sue vittime si cela anche Gennaro (“Tu pur qui? Non sei fuggito?”). Allontanati tutti gli altri, Lucrezia implora il figlio di prendere l’antidoto (“M’odi, ah m’odi”), ma il giovane, scoprendo che la pozione è sufficiente per lui solo, rifiuta. La donna gli svela allora di essere sua madre e quindi si accascia disperata sul corpo del figlio morente (“Era desso il figlio mio/ Madre se ognor lontano”).
L’atmosfera ‘notturna’ che circola in ogni atto e nel prologo diLucrezia Borgiaviene, per contrasto, esaltata ed enfatizzata dagli episodi ingannevolmente festosi e gai disseminati da Donizetti nel corso di tutta l’opera. Emblematico in questo senso è lo splendido brindisi di Maffio Orsini, alternato ai cupi interventi del coro fuori scena, pagina celeberrima alla quale solo un mezzosoprano-contralto dalle grandi capacità virtuosistiche può rendere pienamente giustizia. Orsini, ruoloen travesti, con il suo rifarsi ai moduli tradizionali rossiniani è in fondo il personaggio più arcaico dell’opera. L’influenza del Pesarese è peraltro palese anche in Lucrezia (ruolo che oggi definiremmo da soprano drammatico di agilità) soprattutto nella sua aria e cabaletta finale “Era desso il figlio mio”. Questa pagina, che si vuole ‘imposta’ a Donizetti da Henriette Méric-Lalande, prima interprete di Lucrezia, conclude l’opera nella versione del 1833. Donizetti però, per la ripresa scaligera del 1840, riscrisse il finale affidando un’aria (“Madre se ognor lontano”) a Gennaro morente, all’epoca interpretato dal grande Napoleone Moriani, il «tenore della bella morte» come fu definito. Relegato il personaggio di Alfonso al ruolo del ‘cattivo’ di turno, fin dagli inizi il successo dell’opera fu quindi intimamente legato alle qualità vocali degli interpreti di Lucrezia e di Gennaro. A loro, infatti, Donizetti affida gli squarci più commoventi della partitura. In particolare tutto il lungo e articolato duetto finale, dal momento in cui la Borgia resta sola con il figlio dopo che gli altri sono stati allontanati (e avvelenati!); pagina che, per il suo lirismo intenso e lacerante (memorabile il “M’odi, ah m’odi” di Lucrezia), è una significativa dimostrazione dell’abilità di Donizetti nel coniugare il virtuosismo canoro a una pittura degli affetti intensa e struggente.