Umberto Giordano arrivò al successo nel 1896 conAndrea Chénier, ispirato alla vita del poeta francese, dopo la contrastata accoglienza diMala vita(1892) e il fiasco diRegina Diaz(1894). Alla riuscita dell’opera, di cui dubitavano sia l’editore sia il Teatro alla Scala, contribuirono due padrini d’eccezione: un compositore influente quale era il barone Alberto Franchetti, che cedette a Giordano il libretto, e Pietro Mascagni, che la fece rimettere in cartellone correggendo il giudizio lapidario del consulente musicale di Sonzogno: «Irrappresentabile». Nonostante la defezione di Alfonso Garulli, il tenore che avrebbe dovuto tenere a battesimo il personaggio di Chénier, e la sua sostituzione con Giuseppe Borgatti, reduce da vari insuccessi e a quell’epoca senza scritture, la prima rappresentazione ebbe un esito trionfale, grazie anche all’eccellenza del soprano Evelina Carrera nel ruolo di Maddalena e del baritono Mario Sammarco in quello di Gérard. Uguale entusiasmo suscitò il debutto a New York il 15 novembre 1896. In pochi anni l’opera fu eseguita nei più importanti teatri europei e americani, dove compare tuttora con regolarità in cartellone.
Atto primo. Signoria dei conti di Coigny, una giornata d’inverno del 1789. Nella serra del castello, imitazione pretenziosa di più nobili dimore, tra grotte abitate da ninfe, statue di dèi olimpici e mulini in miniatura, una folla di valletti e lacchè sposta mobili e vasi ai comandi di un maestro di casa. In mezzo il servo Gérard, che trasporta un sofà azzurro. Dal giorno in cui è stato sorpreso a leggere Rousseau e gli Enciclopedisti, per lui non c’è pace. E mentre gli altri, a un cenno del maestro, si ritirano, lui rimane in ginocchio a lisciare la seta, sprimacciare i cuscini, sciogliere i nodi alle frange. Se ne lamenta ironico con il divano (“Compiacente a’ colloqui del cicisbeo”), ma presto il sarcasmo si muta in invettiva. Dal giardino avanza trascinandosi sotto il peso di un mobile il vecchio padre e Gérard non trattiene lo sdegno (“Son sessant’anni”), inneggiando tra le lacrime alla Rivoluzione. Intanto, al di là della serra, sono comparse la contessa e Maddalena con l’inseparabile cameriera Bersi, la madre in ansia per i preparativi della festa, la figlia in contemplazione del tramonto (“Il giorno già s’inserra lentamente!”), sotto lo sguardo ammirato del servitore. La giovane indugia, detesta indossare corsetti, gonne ‘coscia-di-ninfa-bianca’ e cappelli ‘alla Montgolfier’ e, contro il volere materno, sceglie per la serata unamisedi neoclassica compostezza: lungo abito bianco e rose tra i capelli. Di lì a poco il castello si anima. Arrivano slitte, dame impellicciate, cavalieri incipriati e, a chiudere il teatro degli ospiti, un abate dicitore, il romanziere Fléville, il musicista Fiorinelli e «un che fa versi e che promette molto», Andrea Chénier. L’abatino porta da Parigi notizie nefaste: il re è debole, c’è un Terzo stato e – «orrore» – la statua di Enrico IV è stata offesa. L’ansia cresce, ma Fléville è rapido a placarla (“Passiamo la sera allegramente”) e invita tutti a seguire la pastorale di sua composizione che sta per essere rappresentata. Pastorelli e pastorelle declamano sospirando arcadici amori, applauditi soprattutto dalle signore. Poi l’abatino improvvisa una favola antirivoluzionaria, suscitando robuste risate. Chénier, in disparte, tace. Soltanto Maddalena riesce a sottrarlo alla sua malinconia, quando gli chiede di parlare d’Amore. Il poeta si abbandona a un canto (“Un dì all’azzurro spazio”), ma evoca povera gente, fatiche, miseria, conquistando la contessina, irritando gli ospiti e infiammando l’animo di Gérard, che irrompe in sala alla testa di un gruppo di mendicanti. «Ah, quel Gérard... L’ha rovinato il leggere», lamenta la contessa distesa sul sofà dopo avere cacciato «ciurmaglia» e servitore. Le dame e i cavalieri riprendono a danzare una gavotta.
Atto secondo. Parigi, un giorno di giugno del 1794. In primo piano, un ‘altare’ dedicato a Marat, il caffè Hottot e la terrazza dei Feuillants; sullo sfondo, l’ex Cours-la-Reine e il ponte Peronnet che conduce al palazzo dei Cinquecento. Chénier siede solo a un tavolino. Il sanculotto Mathieu e la carmagnola Orazio Coclite parlano con tracotanza di rivoluzione; Bersi, fingendosi convertita (“Temer, perché?”), interroga un ‘Incredibile’ a proposito delle spie di Robespierre. «Osservatori dello spirito pubblico», obietta l’uomo, tradendo il proprio ruolo di delatore. E non persuaso dalle proclamazioni di fede della mulatta, decide di seguirla a distanza. Il suo obiettivo è ambizioso: riportare a Gérard, diventato un protagonista del Terrore, Maddalena di Coigny e consegnare alla giustizia il controrivoluzionario Chénier. Roucher, che intanto è arrivato al caffè, tenta invano di convincere l’amico a mettersi in salvo. Chénier sente che il destino (“Credo a una possanza arcana”), un destino d’amore (“Io non ho amato ancor”), lo chiama a restare, per trovare la donna misteriosa che da tempo chiede il suo aiuto in lettere firmate Speranza. Roucher esamina i messaggi, la calligrafia sottile, la carta elegante profumata di rosa e smaschera la sedicente innamorata: si tratta di una ‘Meravigliosa’, una delle tante cortigiane al servizio della Rivoluzione. Addolorato per l’ennesima disillusione, Chénier decide allora di partire. Ma proprio in quel momento, dalla folla scomposta che si accalca intorno al palazzo dei Cinquecento per vedere Robespierre, esce Bersi: appena il tempo di dare a Chénier un appuntamento con la sua ignota scrittrice prima di scomparire tra i fazzoletti, le coccarde e i berretti frigi levati per l’Incorruttibile. Così quella sera, vicino al sinistro altare di Marat, Chénier incontra la sua Speranza: non una sconosciuta, ma Maddalena. Lei gli dice la sua stima e implora protezione (“Eravate possente”), lui le risponde rapito (“Ora soave”). Poi, in un impeto di passione, Andrea e Maddalena si giurano fedeltà fino alla morte, ignorando quanto l’ora sia vicina. L’Incredibile, nascosto dietro un albero, non ha perso una delle loro parole e le ha prontamente riferite a Gérard, che compare all’improvviso sfidando a duello Chénier. Con un paio di abili parate e una stoccata, il poeta atterra il rivale, non risparmiando il sarcasmo per l’imperizia del servitore. Ma Gérard, assai più nobilmente, spinge Chénier a fuggire con Maddalena e lascia credere alle Guardie nazionali di essere stato ferito dai Girondini. «Morte agli ultimi Girondini», urla la folla minacciosa.
Atto terzo. Tribunale rivoluzionario, prima sezione. Sul tavolo del presidente Dumas, sorvegliato da carmagnole e guardie nazionali, campeggia una grande urna per i contributi alla causa. «La patria è in pericolo», dice una scritta su un drappo tricolore. Mathieu si adopera per ottenere dalla popolazione oro e soldati, ma con esiti scarsi. Più convincente risulta Gérard, sebbene ancora sofferente per la ferita. Al suo appello (“Lacrime e sangue dà la Francia”) risponde anche una cieca (“Son la vecchia Madelon”), che immola alla Rivoluzione il nipote quindicenne, suo unico sostegno. Il ragazzo viene accettato con militaresca ruvidezza e la commozione esplode in una travolgente Carmagnola intonata e danzata per le strade della città. Al calore della folla si contrappone però il gelo del tribunale, dove l’Incredibile, con irresponsabile leggerezza, annuncia a Gérard il prossimo arresto di Chénier, cui lo condurrà proprio l’ignara Maddalena (“Donnina innamorata”). Gérard esita, poi scrive l’atto d’accusa, dal momento che sul poeta già pesa la condanna di Fouquier-Tinville. Ma questo non gli impedisce di sentirsi insieme vile e servo impotente di nuovi padroni. E riflette beffardo sugli ideali infranti, sulla sua anima rivoluzionaria trasformata in quella di un assassino, sulla Ragione schiava del Senso (“Nemico della patria?”). Ad aggravare la sua angoscia arriva Maddalena, scarmigliata, sconvolta, che lo scongiura di salvare Chénier. Gérard invece le confessa il suo amore (“Io l’ho voluto allora che tu piccina”) e, accecato dalla gelosia, cerca di possederla. La donna gli oppone un lamento accorato, dove ripercorre le tragedie degli ultimi anni (“La mamma morta”) e poi si offre come «morta cosa», ottenendo che lui non solo desista dall’intento, ma le chieda perdono e prometta di aiutarla. Troppo tardi. A nulla valgono i ritrattamenti di Gérard e l’orgogliosa difesa di Chénier (“Sì, fui soldato”). Il poeta viene mandato a morte fra l’atroce esultanza della popolazione.
Atto quarto. Cortile delle prigioni di San Lazzaro. Assistito da Roucher, Chénier sta finendo di scrivere dei versi (“Come un bel dì di maggio”): è il suo congedo dall’‘ultima dea’, la Poesia. I due amici si abbracciano e quando arriva il carceriere Schmidt si separano commossi. Sulle prigioni scende la notte, dall’esterno giungono lontane le note della Marsigliese. Ma Chénier non morirà da solo. Fedele al giuramento sotto l’altare di Marat, Maddalena obbliga Gérard a introdurla nella prigione e a scambiarla con una condannata. Finalmente uniti (“Vicino a te s’acqueta... La nostra morte”), gli amanti si concedono la loro unica notte d’amore e all’alba salgono debitamente fieri sulla carretta che li condurrà alla ghigliottina. Gérard, l’uomo della Rivoluzione, piange di dolore e di amarezza. Tra le mani stringe ancora il biglietto di Robespierre, che alle sue preghiere per la vita di Chénier ha risposto: «Anche Platone bandiva i poeti dalla sua Repubblica».
Nessuna altra opera di Giordano ha ottenuto il successo diAndrea Chénier,nemmenoFedora,rappresentata nel 1898 al Teatro Lirico di Milano con un giovanissimo Caruso. Legata alle alterne fortune del verismo musicale – oggetto di un dibattito non ancora equanime – l’opera continua a essere attaccata da chi ne critica la drammaticità enfatica e la ricerca dell’effetto facile, e difesa da chi, oppositore della modernità, ne tesse lodi forse non proporzionate ai risultati. Oggi però si tende ad approfondire sia il contesto storico-culturale in cui l’opera nacque (una Milano di fine secolo – città di adozione del pugliese Giordano – divisa tra ambizioni politiche e rivendicazioni populiste, tra gli orizzonti circoscritti della piccola borghesia e le prime spinte europeistiche) sia le specifiche caratteristiche musicali (un’orchestra concentrata sul racconto e sul gesto dei personaggi, tendente a una illustrazione efficace dell’azione scenica piuttosto che a un’amplificazione psicologica o concettuale degli eventi; una conseguente attenzione a transizioni armoniche che accostano tonalità spesso lontane, per sottolineare trapassi d’umore o di atteggiamento; una solidità architettonica e una misura stilistica che arginano gli slanci canori e il ‘grido’ verista). Amato dagli interpreti, in particolare dai tenori, per la cantabilità delle melodie delle sue celebrate arie e duetti,Andrea Chénierè stato un cavallo di battaglia di molti cantanti, da Giovanni Zenatello, Giacomo Lauri-Volpi e Beniamino Gigli, che scelsero questo ruolo per il loro debutto londinese, a Mario Del Monaco e Franco Corelli.