Dalla metà del SettecentoLa serva padronaè stata considerata la madre di tutto il teatro comico in musica. Come accade con molte leggende, si trattava di una sopravvalutazione, dovuta a una serie impressionante di fattori. L’origine del mito risale al 1º agosto 1752, quando, a Parigi, la compagnia di commedianti di Eustachio Bambini mise in scena questi due intermezzi. La rappresentazione avvenne provvidenzialmente in una temperie culturale arroventata daiphilosophesilluministi, che non attendevano altro per mettere in discussione i valori nazionali, anche in campo musicale; venne scatenata una polemica di vaste proporzioni (la cosiddetta ‘querelle des bouffons’), combattuta contro la tradizione musicale francese dellatragédie lyriquenella linea che da Lully porta a Rameau. La battaglia, che alla preminenza della declamazione – di gusto francese – opponeva quella del canto puro coltivata dagli italiani, di cuiLa serva padronaera apparsa come la rivelazione folgorante, venne condotta a colpi dipamphlets: nel 1753 Jean-Jacques Rousseau avrebbe scritto, a sostegno del partito italiano, laLettre sur la musique française, mentre il 18 ottobre 1752 aveva fatto rappresentare a Fontainebleau, su testo e musica propri, il suo personale equivalente dellaServa padrona, quelDevin du villagedestinato a raggiungere il tempio dell’Opéra già il 1º marzo del 1753. Tanto clamore, in quanto proveniente da Parigi, non poteva naturalmente non provocare una vasta risonanza su scala europea, cui contribuirono anche l’aura di leggenda intorno alla precoce morte di Pergolesi (a soli ventisei anni), lo svilupparsi di un inedito interesse per i periodi precedenti della storia della musica e la formazione di un repertorio di titoli operistici.
Ignara di tanta fortuna postuma,La serva padronaera nata nel 1733 in un contesto del tutto differente, con la funzione di intermezzi tra gli atti del dramma per musicaIl prigionier superbodi Pergolesi stesso, rappresentato al teatro San Bartolomeo di Napoli in occasione del compleanno dell’imperatrice Elisabetta Cristina (il 28 agosto, data della ‘prima’ di diverse opere importanti della tradizione napoletana), interpretata da un attore-cantante di comprovate capacità, Gioacchino Corrado. Il libretto era opera di Gennarantonio Federico, accorto autore di numerosi testi per musica, tra cui i pergolesianiIl FlaminioeLo frate ’nnamorato, nonchéAmor vuol sofferenzadi Leo (tenuta anch’essa a battesimo dal grande Corrado). L’intermezzo era un genere dalla storia ormai più che ventennale, popolarissimo a Napoli dove era frequentato da pressoché tutti i compositori; fu proprio ai modelli dei vari Hasse e Leo che Federico guardò nel redigere l’esile trama della vicenda, canovaccio per una commedia di caratteri briosa e scenicamente credibile, che abbandona quasi del tutto il motivo del travestimento per concentrarsi sulla precisa definizione della psicologia individuale. I due intermezzi guadagnano così in compattezza e realismo, qualità che da un lato poterono favorirne la fortuna sul piano estetico e dall’altro assecondarono l’unità di ispirazione della musica di Pergolesi. Il soggetto era già apparso nellaServa scaltradi Hasse (1729) e, ancor prima, nelPimpinonescritto da Pietro Pariati e intonato da Albinoni (1708) e in seguito da Telemann (1725).
Intermezzo primo. La dinamica e intraprendente Serpina, serva di Uberto, scapolo impenitente e ricco, si comporta in casa come se fosse la padrona: impone capricciosa ogni sua opinione, complice la natura di Uberto, debole, titubante e perennemente indeciso. Per sottrarsi alla tirannia della ragazza, l’uomo le annuncia che intende sposarsi. Serpina vede allora di fronte a sé un’unica soluzione: la moglie deve essere lei stessa; saprà da par suo convincere Uberto a sposarla.
Intermezzo secondo. La ragazza ha escogitato un piano: dapprima avvisa Uberto che sposerà un certo capitan Tempesta, quindi presenta lo sposo (in realtà il servo Vespone travestito), che, pur senza proferir parola, reclama da Uberto la dote di Serpina. L’atteggiamento minaccioso del capitan Tempesta scioglie le residue reticenze di Uberto. Scopertosi innamorato della serva, l’uomo accetta volentieri l’alternativa proposta dal capitan Tempesta attraverso Serpina: sposarla in vece sua.
La cifra caratteristica dellaServa padrona– ciò che contribuì a farvi scorgere, con immediata evidenza, l’esemplificazione del gusto nuovo di un’intera epoca – è la formulazione di un linguaggio musicale comico di assoluta pregnanza e incisività. Pergolesi punta direttamente alla caratterizzazione dei due personaggi, cogliendo l’aspetto dinamico della personalità di entrambi (l’intraprendenza volubile e determinata di Serpina, come l’irresoluta irrequietezza di Uberto), e ne formula l’equivalente musicale con rigorosa coerenza stilistica per tutta la partitura. Tra le cinque arie (tre di Uberto e due di Serpina) e i duetti che chiudono i due intermezzi, solamente l’aria di Serpina “A Serpina penserete” si sottrae – e solo parzialmente – al vortice di esuberanza vitale che anima i due personaggi: una vivacità che, se da un lato è il riflesso dei caratteri di ciascuno, dall’altro ne rende assai bene l’interazione, non solo vitalizzando con estrema finezza i duetti, ma persino introducendo nella struttura testuale e musicale dell’aria il riferimento a un interlocutore (l’altro personaggio, se stessi o talvolta il pubblico); sicché l’aria non si configura più come la statica espressione di affetti tipica dell’opera seria, ma come uno scambio fitto e dialettico di influenze tra soggetti in relazione reciproca. Il gesto musicale icastico, incisivo, dal netto profilo ritmico e dalla formuletta melodica memorabile diventa inoltre segnale – e quasi concretizzazione – del gesto fisico dei personaggi, imitato nella sua carica comica attraverso una sorta di materializzazione sonora della visibilità dell’azione. La scrittura musicale finisce per constare di segmenti ritmico-melodici brevi, concentrati e indipendenti, dall’effetto dirompente e del tutto inedito nel contesto della civiltà compositiva del primo Settecento, fondata sulla preminenza del basso continuo: una via che condurrà ben presto alla nascita dello stile classico, come ci si dovette accorgere immediatamente a Parigi nel 1752.
Consideriamo ora nel dettaglio la partitura, iniziando dai duetti ‘d’azione’ che chiudono entrambi gli intermezzi. Si tratta, come da tradizione, di dialoghi ‘in presa diretta’ tra i personaggi, il primo dei quali, “Lo conosco a quegli occhietti”, è particolarmente serrato, poiché è l’unica volta che il contrasto tra Uberto e Serpina viene rappresentato dalla musica. Pergolesi è estremamente preciso nella definizione dei due caratteri: già il ritornello introduttivo degli archi ostenta, con grazia e scioltezza, la sicurezza della ragazza, che esprime il suo dominio della situazione attraverso una vocalità distesa e suadente, con la quale si propone senza pudori come «bella, graziosa, spiritosa»; Uberto, al confronto una pallida controfigura, è confinato nel suo registro grave, in cui non gli resta che meditare su quello che paventa come un inganno già consumato. I due atteggiamenti interagiscono in un quadro formale di gioiosa libertà, nella mutevolezza continua di profili ritmici e melodici, tanto da far apparire il brano come «costituito da tanti piccoli cubetti-giocattolo» (Strohm). Il luogo del duetto conclusivo, che sigla l’esito nuziale della vicenda, è occupato da due pezzi diversi: il duetto originale “Contento tu sarai”, complessivamente meno dinamico del resto della partitura, venne infatti sostituito, nel corso del Settecento, da “Per te io ho nel core”, che Pergolesi scrisse per la coppia di servi Checca e Vastiano delFlaminio(1735), due anni dopoLa serva padrona. Ormai celeberrimo, quest’ultimo è un brano di sicura efficacia, percorso da una cordialità affettiva di immediata comunicativa; su una melodia d’indimenticabile freschezza, il compositore innesta l’imitazione del battito cardiaco (ti-pi-ti) – segnale onomatopeico, fisico-realistico dell’amore tra i due personaggi – nel solco di una consolidata tradizione comica. Tutte le arie di Uberto condividono la stessa, sommamente ingegnosa definizione del personaggio. Procediamo dalla mirabile “Sempre in contrasti”, che riassume le caratteristiche fondamentali dell’intera operina; vi si trovano la spiccata tendenza alla gestualità, attraverso incisi ritmico-melodici indipendenti, il riferimento dialogico a un interlocutore (qui addirittura due: Serpina e Vespone), la gustosa inflessione patetica all’evocazione del pianto, la comica disperazione, concentrata nel grido «basti, basti», l’affastellamento di coppie antitetiche di monosillabi (qua-là, su-giù, sì-no), cariche diviscomica e snocciolate in un secondo tempo senza alcun ordine, a rappresentare il caos che regna nella mente di Uberto. Il personaggio si era presentato con l’aria “Aspettare e non venire”, in cui figura impaziente perché la cioccolata richiesta da ore non gli è stata ancora servita: la rabbia di Uberto è rappresentata da quella stessa varietà ritmica e tematica prima considerata. L’andamento nervoso dell’aria provoca una ricomposizione continua degli spunti melodici, che già il ritornello strumentale d’esordio presenta in ordine sparso; anche la struttura del pezzo, costituito solo da quattro versi, è anomala e ossessiva: rimarchevoli versi, dominati da una successione di verbi all’infinito di cui si ricorderà Da Ponte, per l’intervento con cui Leporello – un altro in impaziente attesa – apriràDon Giovanni: «Notte e giorno faticar (...)/ Piova e vento sopportar...». Nel secondo intermezzo, introdotta da un recitativo accompagnato, compare un’aria in cui il povero Uberto è più che mai preda dell’incertezza sul da farsi; la musica rispecchia precisamente il dualismo della sua personalità, contesa tra lo sfondo di estrema concitazione ritmica degli archi (simbolo dell’agitazione prodotta da quell’inesprimibile ‘certo che’) e le brusche, improvvise frenate della voce interiore, che trattiene il personaggio nel registro grave col monito «Uberto pensa a te». Serpina si aggiudica invece un’aria straordinaria, “A Serpina penserete”, ugualmente mirabile sia per l’immediatezza della sua grazia sia per l’intelligenza, l’arditezza dell’ideazione e l’efficacia. Non tragga in inganno il fascinoso splendore melodico con cui, prima gli archi e quindi il soprano, attaccano questo Largo di solare bellezza napoletana; la ragazza sta solo simulando il coinvolgimento emotivo: la sublimità della frase è architettata ad arte per sedurre Uberto e commuoverlo in suo favore. Serpina scopre infatti le carte nella successiva sezione contrastante, in cui riprende i panni stilistici che le sono riservati nel resto della partitura (antitesi perfetta dell’unica oasi lirica che ci era stata appena regalata), commentando rivolta a se stessa – e si direbbe anche al pubblico – le reazioni che la sua finzione sta provocando in Uberto. Considerazioni analoghe a quelle svolte per le arie di Uberto spetterebbero a “Stizzoso, mio stizzoso”, in cui Serpina suggerisce al padrone l’adozione di una condotta del tutto remissiva. Il gusto realistico della musica emerge dalla docilità con cui viene seguita la declamazione del testo, con intonazione e velocità che mutano a seconda delle indicazioni di Serpina; l’aria presenta una serie di monosillabi, inseriti in un tessuto musicale particolarmente brillante (e ulteriormente alleggerito dalle note isolate che danno voce ai vari ‘ma’, ‘no’), incline al descrittivismo musicale (la nota tenuta su «cheto») e capace di svolte impreviste, come nell’ordine perentorio «e non parlare».