Harold C. Schonberg, noto critico americano, ebbe a dire che quando Pavarotti nacque "Dio baciò le sue corde vocali" ("God had kissed his vocal cords"). E Rodolfo Celletti aggiunse: "Non credo che abbia torto". E una volta Pavarotti disse a Celletti di non aver studiato il canto troppo a lungo perché era nato cantante. I suoi insegnanti? Arrigo Pola (1919-1999), suo primo maestro di canto, confessò: "Con Luciano vi furono ben pochi problemi. Spesso un allievo arrivava pieno di cattive abitudini e metodi sbagliati... Ma Luciano aveva pochissime di queste abitudini e nessuna disastrosa. Potei così costruire la sua tecnica quasi da zero; non aveva difetti ineliminabili e studiava con passione. Dopo aver lavorato duramente per un anno, Luciano aveva due ottave di estensione, in ottima forma. La sua voce si ampliò gradualmente sia in alto sia in basso, acquisendo la stessa sicurezza agli estremi -le note basse e gli acuti- e nel mezzo. (...) Luciano è dotato di un orecchio perfetto e di un senso musicale innato." Poi ci fu Ettore Campogalliani (1903-1992). Questi, come ci ricorda Alberto Mattioli nel suo recente libro "big Luciano", "era famoso come ripassatore di spartiti e depositario dei sacri canoni della ‘tradizione' lirica" . Insomma, se Dio baciò le corde vocali di Pavarotti, gli angeli lo portarono verso buoni maestri e sarebbe ingiusto negare che la sua tecnica fosse ottima, al di là delle scelte scriteriate degli ultimi anni a base di concertoni semipop. Ma è lo stesso Mattioli a notare: "Magari non ai livelli di raffinatezza di alchimisti della vocalità come Carlo Bergonzi o Alfredo Kraus, ma fondamentalmente sana, sì. E con l'ulteriore pregio di essere ‘antica'." E in ciò ha sicuramente influito papà Fernando che ascoltava dischi di Gigli, Schipa, Pertile. Sicché Pola e Campogalliani gli impostarono la voce secondo precetti antichi. Scrive ancora Mattioli: "Nel modo di cantare di Pavarotti non tutto era allo stesso livello (per esempio le mezzevoci), ma le fondamenta erano solidissime: respirazione da manuale, appoggiata sul diaframma, voce ‘in maschera', passaggio di registro corretto e, di conseguenza, acuti facili e squillanti. Non diventò mai, invece, un grande musicista. (...) E questo spiega perché Pavarotti abbia sempre recitato male e non abbia mai davvero imparato a leggere uno spartito (e men che meno una partitura)." (op. cit. pag. 27, ed. Mondadori) Del resto, neanche Caruso leggeva la musica. E il grande Lauri Volpi azzeccava nel riconoscere l'atipicità tenorile di Pavarotti: la sua voce si sottraeva a una tipologia di ascendenza carusiana, il suo timbro aveva una "chiarità mediterranea." Angelo Sguerzi renderà più esplicita la definizione di Lauri Volpi: si tratta di una chiarezza dal "timbro armonico, pastoso e lucente, mentre il personaggio riceve un carico di vitale fraseggio"; caratteristiche che sembravano scomparse col declinare del fenomeno Di Stefano (primi anni della sua carriera) perché allora si lasciava spazio al tenore di stampo verista.
Pavarotti ebbe un coraggio da leone quando, nel 1961, decise di andare a debuttare a Reggio Emilia, al Teatro Municipale, e proprio con un'opera già divenuta assai popolare, e cioè "La Bohème" di Giacomo Puccini. Qui Pavarotti ottenne una vera e propria ovazione e tutti salutarono "l'avvento d'un uomo unto dal signore" (Celletti 1987). Nel 1962 cantò "Rigoletto" a Palermo e nel '63 fu al Coven Garden di Londra con "Bohème"; nel '68 arrivò al Metropolitan di New York; e poi venne il ferreo contratto con la "Decca". Pavarotti era già il "Re del do di petto", titolo mai dato a altri. E non c'è tenore al mondo più di lui amato dai discofili. Ma ritorniamo alla sua voce. Cosa succedeva nel 1966 a Londra con la "Figlia del Reggimento" di Donizetti da Pavarotti interpretata? Ce lo riferisce il già citato Rodolfo Celletti: "C'è un passo di quest'opera che da tempo immemorabile i tenori omettono. La ragione è che, in una cinquantina di misure dal ritmo piuttosto concitato (in un allegro in 3/
, bisogna emettere otto do acutissimi. Al tempo di Donizetti, per la verità, i do acutissimi erano emessi in falsettone. Oggi il falsettone nessuno sa più che cosa sia e in presenza di un do acutissimo i tenori lo emettono in piena voce (di ‘petto') o, se non sanno farlo, rinunciano a prender la parola e tacciono per sempre. Bene, Pavarotti a Londra non solo sparò gli otto do di petto l'uno dietro l'altro, come un organo Stalin, ma ne aggiunse uno in regalo, alzando di una quinta il fa conclusivo. Fu in quel momento che, fra le urla delirati dei londinesi, spuntò per lui il sole di Austerlitz. Il trono di Re del do di petto era vacante e Pavarotti ci si sedette sopra con molta leggerezza e disinvoltura di quanto la sua statura e la sua complessione avrebbero fatto prevedere. Da allora regna felicemente. God save the King." (Celletti 1987)
Ciò venne ripetuto alla scala nel 1968 e subito dopo al Metropolitan , con diciassette chiamate al proscenio. Chi oggi è capace di mandare in visibilio, nello stesso allegro, le platee di tutto il mondo? E' il peruviano Juan Diego Flórez, tenore contraltino molto apprezzato dallo stesso Pavarotti. Sul francese di big Luciano però è meglio tacere. Come si deve tacere sull'italiano della sua amica Sutherland. Ma ci si può fermare solo allo splendore degli acuti? Dov'era, per esempio, l'interprete? Restava in penombra. Nella prima parte della carriera aveva bisogno di sfogare "la carica di esuberanza vocale insita nella sua natura di superdotato. La gioia di cantare fremeva in lui come un dirompente bisogno fisico; e la gioia di interpretare era ancora ai margini." (Celletti 1987)
All'alba degli anni Settanta, a Verona, Pavarotti affrontò "Un ballo in maschera" di Verdi. Questo debutto incuteva terrore al Re del do di petto. Perché? Aumentava il senso di responsabilità dell'interprete che stava diventando: ripetiamo la parola "interprete" e non "attore"; come si è detto, nei movimenti scenici bravo non fu mai. E qualche anno dopo, all'Arena di Macerata, sempre nel "Ballo in Maschera", viene menzionato da Celletti come "Un Riccardo da ricordare per sempre. Voce lieve come una carezza in certi momenti, ma riempiva il teatro. Tutto facile, spontaneo, soffice e, in specie, tutto pervaso da un senso dell'amore delicato, tenero, idealizzato, ma espresso da un'argentea, intensa voce virile."(Celletti1987) Il Riccardo del "Ballo in Maschera" è probabilmente il meglio offerto da Pavarotti nel repertorio verdiano. Riccardo è il tenore più amoroso che Verdi abbia potuto delineare, c'è in più qualche sorriso e alcune screziature di "humour".
L ‘amore Pavarotti l'ha nel timbro, l'"humour", invece, nella dizione, nello sguardo, nel mitico granello di bizzarria dei modenesi. Nasceva dunque l'interprete. E non a caso "Un ballo in maschera", "Bohème" ed "Elisir d'amore" erano opere molto amate da Pavarotti. E che dire del suo Rodolfo della "Luisa Miller"? Di quel suo fraseggio disperato e allucinato nell'ultimo atto? Non è forse questo interpretare Verdi? Saperlo rendere "drammatico anche con un filo di voce; analizzarlo sillaba per sillaba; esprimerlo col timbro e l'accento appassionato di chi intende l'amore come un sentimento tragico, di cui si muore ." (Celletti 1987) Pavarotti canta l'amore in tutte le chiavi: da Rodolfo della "Bohème", personaggio scapigliato, ma borghese, a Calaf, principe temerario da fiaba, la distanza è molto lunga, ma big Luciano con la sua voce riesce a colmarla molto bene. E che dire del suo Arturo dei "Puritani" (in ispecie nell'ultimo atto) e di Fernando della "Favorita"? Luciano Pavarotti, uomo di natura estroversa e vivace, ha scoperto il vero segreto di questi personaggi: "li fa malinconici, assorti, introversi, dà loro voce di adolescenti candidi e sognatori, ma li rende anche araldici, fieri, alteri, infiammati. In questo senso (...) il Fernando della "Favorita", inciso in edizione integrale, con tutte le caballete, i "da capo" e i sopracuti di rito, è forse il Pavarotti più eloquente, compiuto e meditato, il personaggio da salvare in caso di diluvio universale o altro evento apocalittico." (Celletti 1987) Su un altro campo vanno ricordati il suo "Turiddu" e il suo "Canio". "Voce a parte, rappresentano, insieme a quello di Carlo Bergonzi, l'unico serio tentativo (per più aspetti felice), compiuto negli ultimi trent'anni, di dare a queste figure, immancabilmente travolte dalle superficialità e dal canto scorretto dei tenori veristi, una dialettica interiore." (Celletti1987).
Dagli anni Ottanta in poi viene fuori il Pavarotti che costruisce il "Poema del tenore di massa". Ed è quello che artisticamente a noi interessa molto meno. Diviene un fenomeno sociologico: qui l'espressione canora non è più il suo fine, ma usa la voce per conquistare le masse. E ci riesce. Diviene certo il tenore più popolare e popolano del secolo. Ma non il più grande. Deve fare i conti con l'eleganza di Alfredo Kraus, musicalmente molto più dotato di big Luciano e con la "vis espressiva" del citato Bergonzi. Con Kraus ha in comune la triste fine: anche il tenore originario delle Canarie è morto con un cancro al pancreas nel 1999 e, guarda caso, sempre nel mese di settembre, venerdì 10 per la precisione, e pure a 72 anni; ma l'elegante tenore spagnolo non ha avuto sui giornali i meritati onori. Lo chiamavano l' "hidalgo" per la signorilità dell'aspetto. Era asciutto, bello, elegante e dosava le sue apparizioni. Aveva scelto di non cantare negli stadi e veniva considerato l' "anti-Pavarotti". Personalmente, ho avuto la fortuna di ascoltarlo al Teatro Massimo di Palermo nel 1971 in due opere indimenticabili, "Rigoletto" e "Lucia di Lammermoor" con Renata Scotto: che magia! Non ho sentito più voci di quel calibro. Ma gli Italiani devono essere fieri di avere avuto big Luciano: se non era il più grande (e per me non lo era) è da annoverare fra i più grandi del secolo scorso. E, credetemi, questo non è poco! Voglio chiudere su Pavarotti con lo stracitato Celletti: "Un uomo che, tutto sommato, ha tramutato la propria bravura e la propria carica di simpatia in un capitale sociale. E la gente l'ha accontentato. Ha amato il tenore e anche l'uomo".
Bagheria, 05/10/07