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 L'italiana in Algeri - G. Rossini

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MessaggioTitolo: L'italiana in Algeri - G. Rossini   L'italiana in Algeri - G. Rossini EmptyDom Gen 16, 2011 10:12 pm

Un fatto di cronaca, la bizzarra vicenda di una signora milanese, Antonietta Frapolli, rapita nel 1805 e portata alla corte del bey di Algeri, Mustafà-ibn-Ibrahim, potrebbe essere stato la fonte del libretto che Angelo Anelli approntò perL’Italiana in Algeridi Luigi Mosca (Teatro alla Scala 1808), libretto che Rossini riutilizzò cinque anni dopo, quando l’impresario del Teatro San Benedetto di Venezia lo incaricò di comporre un’opera buffa. Che Anelli si sia ispirato a una vicenda realmente accaduta non è che un’ipotesi; documentabile è invece l’antichissima tradizione che il tema del ‘ratto dal serraglio’ può vantare nel corso dei secoli: Cesare Questa ne ha rinvenuto le origini dall’ElenaeIfigenia in Tauridedi Euripide alMiles gloriosusdi Plauto, alBelmonte und Constanzedi Bretzner, fonte da cui Gottlieb Stephanie jr. trasse il libretto per ilRatto dal serragliodi Mozart, fino all’Italiana in Algeridi Anelli. La materia ‘turca’ non era dunque, nel primo decennio dell’Ottocento, certo una novità. Da quando nel 1683 gli eserciti del Gran Vizir, che avevano cinto d’assedio Vienna, furono sconfitti a Kahlenberg da un esercito di liberazione condotto dal re di Polonia Giovanni Sobieski al comando di Carlo V di Lorena, l’Europa pose fine all’incubo delle incursioni delle orde giannizzere. Per quanto da questa data i turchi non rappresentassero più una minaccia concreta per l’Europa centrale, la loro presenza rimase come immagine folkloristica in letteratura, arti figurative e musica. In quest’ultimo ambito laturqueriesi risolve, dal punto di vista stilistico, nella ricostruzione oleografica di un certo colore appunto ‘turchesco’ e, dal punto di vista narrativo, in trame basate su una serie di situazioni buffe provocate dalle diversità di costumi, usi, sembianti, dove il comico risulta dall’impossibile confronto tra due mondi lontanissimi. L’harem, il serraglio, la donna o l’uomo europei catturati e ridotto in schiavitù per ordine di un sultano, i conseguenti tentativi di fuga e, a conclusione, la libertà finale grazie alla magnanimità del sultano o al suo desiderio di liberarsi dagli insopportabili occidentali: sono tutte costanti narrative del filone turchesco che vengono rette da altrettante costanti musicali. Dal Gluck dellaRencontre imprevue ou Les Pèlerins de la Mecque(1764) al Grétry dellaCaravane du Caïre(1783) ai tre titoli turcheschi di Mozart –Zaide(1780),Il ratto dal serraglio(1782) e l’incompletaL’oca del Cairo(1783) – alla musica derviscia di Beethoven perLe rovine d’Atene(1811), alle turcherie rossiniane dell’Italiana in Algeri(1813) e delTurco in Italia(1814), la musica turca si connota, come fa osservare Giorgio Pestelli, per una particolare dimensione dinamica e timbrica, data dalla presenza rilevante delle percussioni – in particolare triangolo, piatti, gran cassa – e per l’adozione di un lessico colorito e bizzarro (note extratonali, acciaccature, cromatismi, modalità). A questo proposito va notato che Rossini, nella partitura dell’Italiana, prescrive l’uso di una ‘Gran Banda Turca’ e una ‘Catuba’. La banda turca era un complesso strumentale di varia formazione; alcune fonti lo descrivono come composto da tamburi, gran cassa, piatti, triangolo e mezzaluna, altre da piatti, triangolo, glockenspiel militare, cappello cinese, mentre il termine ‘Catuba’, termine dialettale che si trova in alcuni casi come parte della Banda Turca, è impiegato da Rossini nel quintetto del secondo atto a sottintendere l’insieme di cassa e piatti, senza escludere comunque altri strumenti a percussione.

Considerato il felice parto che l’incontro col libretto di Anelli provocò, dobbiamo desumere che il soggetto turchesco entusiasmasse Rossini al punto da accendere in lui le più straordinarie facoltà creatrici. Tale libretto capitò nelle mani del giovane compositore in modo quanto meno imprevisto, come non prevista era la composizione di un’opera per il teatro San Benedetto nella stagione di primavera del 1813. Dopo lo straordinario successo diTancredial Teatro La Fenice il 6 febbraio 1813, Rossini era infatti partito per Ferrara per curare una ripresa della stessa opera. Al San Benedetto, per il mese di aprile, era prevista una ripresa dellaPietra del paragone, che infatti andò in scena ma con poca fortuna. L’opera, che aveva esordito con successo al Teatro alla Scala, non piacque ai veneziani tanto che l’impresario, Giovanni Gallo, pensò bene di rimediare al rovescio contattando Rossini per offrirgli la composizione di una nuova opera. Non c’era tempo per commissionare un nuovo libretto, così, seguendo una prassi diffusa all’epoca, si pensò di ricorrere a un libretto preesistente,L’Italiana in Algeridi Anelli. Analogie, seppur limitate, tra le due opere indicano che Rossini sicuramente conosceva il precedente di Mosca. Ma, oltre alle analogie, ciò che balza all’attenzione sono le differenze tra i due libretti, differenze che rendono certo l’intervento di un secondo poeta, che fu con ogni probabilità Gaetano Rossi, poeta stabile del maggiore teatro veneziano, La Fenice, e collaboratore di Rossini in occasione della stesura dei libretti dellaCambiale di matrimonioe del recentissimoTancredi. Gaetano Rossi era inoltre impegnato nella stagione di primavera del San Benedetto per la preparazione di un libretto per un’opera di Carlo Coccia. Gli interventi al libretto di Anelli dovettero essere concordati tra compositore e poeta poiché alcune situazioni del libretto di Anelli vennero rielaborate al fine di piegare il testo alle esigenze della musica; si pensi solo al caso più clamoroso: la stretta del finale primo (“Nella testa ho un campanello”), con l’inserzione di un gioco onomatopeico («din, din /bum, bum / cra, cra») del tutto assente nell’originale di Anelli.

Oltre al ricorso a un libretto già musicato, un’altra conseguenza degli stretti limiti di tempi entro i quali l’opera dovette essere prodotta fu il ricorso di Rossini all’aiuto di un collaboratore, cui fu affidata la stesura di tutti i recitativi secchi tranne quello che precede l’aria di Taddeo “Ho un gran peso sulla testa”, e la composizione dell’aria di uno dei comprimari, Haly (“Le femmine d’Italia”). Probabilmente di altra mano è anche la cavatina di Lindoro nel secondo atto “Ah come il cor di giubilo”.

Sta di fatto che diciotto giorni bastarono a Rossini per la stesura di quello che si può definire senza retorica il primo dei suoi capolavori nel genere buffo. Complici due interpreti di eccezione, Maria Marcolini nei panni di Isabella e Filippo Galli in quelli di Mustafà, l’opera registrò, sin dalla ‘prima’, un successo strabiliante e duraturo che provocò, dopoTancredi, l’esplosione di quel fenomeno individuato dai contemporanei col termine di ‘rossinismo’. Il cronista del ‘Giornale dipartimentale’ di Venezia scriveva il 1 giugno 1813, con profetica chiaroveggenza, che «L’Italiana in Algeridi Rossini passerà ovunque tra i capi d’opera del genio e dell’arte».

Mustafà, bey di Algeri, stanco della propria moglie, Elvira, matura un doppio proposito: dare in sposa Elvira a Lindoro, il suo schiavo italiano, e trovare per sé un’italiana. D’altronde, confessa Mustafà a Haly, capitano dei corsari algerini, una moglie «dabben, docil, modesta» per un turco è un partito comune, mentre per un italiano sarebbe assai rara. Haly viene dunque incaricato di mettersi alla caccia dell’Italiana. Lindoro intanto, all’oscuro dei propositi di Mustafà, pensa alla propria amata lontana e si strugge d’amore (cavatina “Languir per una bella”). Sopraggiunge Mustafà e gli manifesta l’intento di dargli moglie. Vista la renitenza di Lindoro, passa a elencare tutte le qualità della candidata ( “Se inclinassi a prender moglie”).

Su una spiaggia, in riva a un mare battuto dalla burrasca. Sul legno dei corsari arriva Haly, che ha fatto preda del bottino e dell’equipaggio; al suo seguito l’Italiana, Isabella. I corsari ammirano la bella signora commentando “È un boccon per Mustafà”, mentre Isabella lamenta la sorte avversa e il pericolo in cui si trova per essersi messa a cercare il suo amato Lindoro. Lo spazio per la disperazione è assai breve: in quattro e quattr’otto la bella Italiana fa una dichiarazione d’intenti: la situazione è grave per cui ci vuole disinvoltura, coraggio e soprattutto la seducente astuzia femminile di cui Isabella, per lunga pratica, conosce il sicuro effetto (cavatina “Cruda sorte”). I corsari scoprono e arrestano Taddeo, cicisbeo di Isabella, la quale dice di esserne la nipote. Haly nomina subito schiavo Taddeo e dichiara a Isabella la sua nobile sorte: “stella e splendor” del serraglio di Mustafà. Taddeo è preoccupatissimo, più per la sorte di lei, di cui è innamorato, che per la propria. La sua gelosia fa andare su tutte le furie Isabella provocando un vivace bisticcio (“Ai capricci della sorte”). Nel frattempo, nella sala del palazzo, Mustafà offre a Lindoro l’opportunità di tornare in Italia purché porti con sé Elvira. La sua fretta aumenta a dismisura quando Haly gli comunica di aver trovato l’Italiana (“Già d’insolito ardore nel petto”, Mustafà). Elvira è disperata ma Lindoro le assicura che essendo ricca, giovane e bella, in Italia potrà trovare tutti i mariti e amanti che vorrà. Mustafà si prepara a ricevere Isabella (“Viva, viva il flagel delle donne”, finale primo); portati al cospetto una dell’altro, i due esprimono tra sé opposto parere: “Oh che muso, che figura!” dice Isabella, “Oh che pezzo da Sultano” dice di lei Mustafà. Ma mentre Taddeo, inseguito da Haly che minaccia di farlo impalare, rivendica il suo ruolo di zio di Isabella, Elvira, la sua schiava Zulma e Lindoro arrivano a congedarsi da Mustafà. Isabella e Lindoro si ritrovano così dopo tre mesi, mentre Mustafà, Elvira, Zulma e Haly assistono allo stupito incontro. Isabella, alla vista di Elvira, apprende di essere lei la sposa di Mustafà, e dichiara al bey la sua fiera opposizione ad amarlo se non accetta che Elvira rimanga con lui; di più: pretende per sé Lindoro come schiavo. Alle proteste di Mustafà, non impiega un attimo a mandarlo al diavolo accusandolo di non saper amare. Mustafà è messo alla berlina: “Ah, di leone in asino / Lo fe’ costei cangiar” commentano Elvira, Zulma e Lindoro. È il momento della sospesa follia della stretta del finale primo rossiniano (“Va sossopra il mio cervello”) che dà luogo al delirio contrappuntistico onomatopeico (“Nella testa ho un campanello”) che chiude il primo atto.

Nell’introduzione al secondo atto gli eunuchi commentano gli effetti dell’amore sul bey: è diventato uno stupido, uno stolto. Anche Haly prevede come andranno a finire le cose e consiglia a Elvira di avere pazienza: dopo l’esperienza con l’Italiana, Mustafà diventerà certo un buon marito. Intanto Mustafà si prepara a prendere il caffé con Isabella e dichiara con tronfia sicumera di saper come trattarla. La prenderà dal suo punto debole, l’ambizione. Isabella nel frattempo si dispera per aver trovato Lindoro infido: ella crede infatti che l’amato sia innamorato di Elvira. L’equivoco presto si chiarisce e i due decidono di ordire qualche raggiro per fuggire insieme (cavatina di Lindoro “Oh come il cor di giubilo”). Per dare prova del suo amore a Isabella, Mustafà nomina il creduto zio, Taddeo, suo ‘grande Kaimakan’, vale a dire luogotenente, e lo fa abbigliare alla turca con turbante e sciabola mentre il coro intona “Viva il grande Kaimakan”. Taddeo non capisce, cosicché Mustafà gli spiega che lo scopo della nomina è che egli riesca a metterlo in grazia alla nipote. Taddeo è dunque a un bivio: o farsi impalare o «portare il candeliere» a Mustafà e Isabella (“Ho un gran peso sulla testa”, Taddeo). In un magnifico appartamento Isabella si prepara per il caffé vestendosi alla turca e impartendo a Zulma e Elvira una lezione di astuzia femminile sintetizzabile nel motto «Va in bocca al lupo chi pecora si fa». Si mette allo specchio conscia che Mustafà, Taddeo e Lindoro la stanno guardando di sottecchi, fingendo amore per il turco (“Per lui che adoro”, cavatina di Isabella). Mustafà è ormai pazzo d’amore: incarica Taddeo e Lindoro di portarla a lui. Lindoro finge di partecipare alla trama del Bey mentre questi intima a Taddeo di lasciarlo solo al segno convenuto di uno starnuto. Ma ai ripetuti ‘eccì’ Taddeo fa il sordo mentre Isabella, del tutto inaspettatamente, invita al caffé anche Elvira. Mustafà va su tutte le furie (quintetto “Ti presento di mia man”). Non poteva finire che così con una donna italiana! (“Le femmine d’Italia”, Haly). Ma la burla inizia ora: Isabella manda a dire a Mustafà che, come prova del suo affetto, a deciso di nominarlo suo ‘Pappataci’. Mustafà è attonito (terzetto “Pappataci! che mai sento!”) e Lindoro gli spiega che è un titolo concesso in Italia a «color che mai non sanno disgustarsi col bel sesso». Taddeo Kaimakan e Mustafà Pappataci: le due cariche si equivalgono, nota Taddeo, e con Lindoro passa in rassegna i compiti di un Pappataci: dormire, mangiare, bere tra gli amori e le bellezze. Isabella cerca di liberare tutti gli schiavi italiani facendoli travestire da Pappataci, col pretesto di organizzare la cerimonia di investitura per il bey. Il pensiero dell’Italia risveglia in Isabella istinti patriottici (rondò “Pensa alla patria”). Arrivano i Pappataci (finale secondo “De’ Pappataci s’avanza il coro”) e Isabella dice a Mustafà che se vorrà avere il grado di Pappataci dovrà seguire attentamente le sue istruzioni: dovrà vedere e non vedere, sentire e non sentire, lasciar fare e dire. Rito primo e massimo è mangiare, bere e tacere. Isabella e Lindoro preparano la fuga: Mustafà mostra qualche sospetto ma Taddeo gli ricorda il suo giuramento: mangiare e tacere, lo stesso fa Mustafà quando Taddeo si accorge di essere stato gabbato: «mangia e taci», lo striglia Mustafà. Lindoro e Isabella, mossi a pietà, invitano Taddeo a seguirli. Compreso nella sua parte di Pappataci, Mustafà non dà retta neppure a Zulma, Haly e Elvira quando questi cercano di fargli capire di essere stato gabbato. Solo all’annuncio che l’Italiana sta scappando, il bey insorge spronando i suoi soldati all’inseguimento, ma i liquori offerti da Isabella hanno avuto il loro effetto e turchi, eunuchi e mori sono tutti ubriachi. Mustafà, esausto dell’Italiana, ritorna da Elvira. Morale: la Donna, se vuole, riesce a gabbare chiunque.

Stendhal, «rossinista del 1815» per sua stessa definizione, ammmiratore incantato del Rossini dellaPietra del Paragone, diTancredie dell’Italiana, nelle quali riconosceva l’erede di Cimarosa e della tradizione del canto italiano, parla, a proposito dell’Italiana, di «perfezione del genere buffo». Ciò che guidava l’opinione stendhaliana era il perfetto equilibrio dei registri sentimentale, buffo e serio, riconosciuto anche dalla moderna critica come uno dei fattori della grandezza di quest’opera. Certo Rossini, soprannominato in gioventù ‘il tedeschino’ per talune affinità stilistiche con il repertorio d’oltralpe, e in particolare con Mozart, una buona lezione in questa direzione l’aveva avuta, basti pensare al mozartianoCosì fan tutte.Vi sono infatti taluni aspetti, come l’orchestrazione, e alcune situazioni dell’Italiana(si veda il terzetto nel finale primo “Pria di dividerci” o il coro dei Pappataci nel secondo atto “Dei Pappataci s’avanza il coro”), che presentano un’inequivocabile coloritura mozartiana. La commistione tra genere serio e buffo è stata spesso sottilineata, a proposito dei melodrammi di Rossini, nel senso della trasmigrazione di materiale dell’opera buffa in opere serie: nel caso dell’Italianaquesta relazione avviene in senso contrario, nell’adozione di stilemi dell’opera seria entro l’opera buffa, e non sempre nel senso della caricatura, della parodia. Un’aria come “Pensa alla patria”, o la sortita di Isabella “Cruda sorte”, che impiega lo schema di ‘coro e cavatina’ normalmente adottato nell’opera seria, avviano una tendenza che andrà sviluppandosi conLa Cenerentolae che troverà una sintesi completa nel genere semiserio conLa gazza ladra.

Al giudizio di Stendhal certo contribuì, se non in modo conscio, un altro aspetto rilevante della partitura rossiniana, vale a dire lo straordinario equilibrio dell’impianto formale, specie del primo atto, che presenta una struttura speculare nella distribuzione dei vari pezzi. Questa rigida impalcatura formale è chiamata a contenere una musica che altro non è se non «follia organizzata» (Stendhal), organizzata appunto in un meccanismo chiamato a inglobare quella «comicità ritmica», secondo l’espressione di Luigi Rognoni, che ha fatto accostare i meccanismi del comico dell’Italianaa certegagdel cinema muto. Questi caratteri del comico sono bilanciati da quello che potremmo definire l’elemento idillico-sensuale: il motivo dell’oboe nell’Andante della sinfonia, gli ‘assolo’ strumentali nell’introduzione di alcune arie: il corno che introduce il tema della prima aria di Lindoro, “Languir per una bella” e che rende così difficile la prova iniziale del tenore, chiamato a confrontarsi immediatamente sullo stessa tema con lo strumento più ricco di armonici; l’assolo di flauto o di violoncello nella cavatina di Isabella “Per lui che adoro”. Queste caratteristiche, cui possiamo aggiungere l’importanza attribuita ai ruoli vocali, la loro distribuzione, le dimensioni, l’impegno compositivo, sono tutti fattori che situanoL’Italianain una posizione ben diversa da quella occupata dalle opere comiche precedenti.

La storia delle rappresentazioni successive alla ‘prima’ del San Benedetto, registra alcuni interventi di Rossini per la composizione di arie alternative: l’aria di Isabella “Cimentando i venti e l’onde” in sostituzione della cavatina “Cruda sorte”, la cavatina di Lindoro “Concedi amor pietoso”, scritta in occasione di una ripresa milanese del 1814 in luogo di “Oh come il cor di giubilo”. Da citare, più come fatto di costume che per il rigore documentario, le modifiche richieste dalla censura di Milano al testo della cavatina “Cruda sorte”, al fine di eliminarne gli allusivi e maliziosi doppi sensi.

Un anno dopo, nel 1815, Rossini venne invitato dall’impresario Domenico Barbaja a rappresentareL’Italiana in Algerial Teatro dei Fiorentini di Napoli: i Borboni erano appena rientrati nella capitale partenopea dopo la parentesi repubblicana di Murat: un testo come quello del rondò di Isabella “Pensa alla patria”, il pezzo più celebre dell’opera, faceva temere il riaccendersi di sentimenti patriottici, tanto più che nel coro introduttivo, alle parole “Quanto vaglian gl’Italiani” Rossini aveva inserito una criptocitazione della Marseillaise: troppo per la attenta censura borbonica, che non si accontentò di modificare i primi versi, come era stato fatto a Roma (“Pensa alla sposa”), ma richiese la sostituzione del rondò con l’aria “Sullo stil de’ viaggiatori”.L’Italiana in Algeri, pur con alterne fortune, non uscì mai completamente dal repertorio: a dispetto di modifiche, autentiche o spurie, di interventi e manomissioni, ha proseguito per quasi due secoli il proprio fortunato e ininterrotto cammino, più che con ali ai piedi, saremmo tentati di dire, con babbucce a mezzaluna...

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